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Linea fuoco, Livio Borriello

Nei western di Bud Spencer e Terence Hill nessuno moriva, gli avversari erano eliminati per intontimento, negli spaghetti-western si moriva in maniera indolore, e un po’ teatrale… nel western classico il farabutto e specie l’indiano schiattava spesso in maniera quasi svagata, volava via dalla diligenza come una foglia morta e appena dopo il cappello. Fino agli anni 70, in tutti questi decessi il sangue era pressoché assente, o era un’evidente lacca diluita con puro valore segnaletico e iconico. Da allora in poi, nei film di guerra o d’azione holliwoodiani , sono cominciati i fiotti lutulenti di sangue, gli schizzi, i torrenti che inzuppavano le camicie, fino ad arrivare all’apoteosi di Tarantino. È evidente che nella rimozione precedente c’era una mistificazione: lo spietato genocidio degli indigeni-indiani, la tracotanza dei gloriosi coloni yankee raccontata nei western, veniva avvolta in una pellicola flou, la morte non era veramente la morte, il sangue non era veramente il sangue. Da questo punto di vista, l’ematismo o ematoflia tarantiniana dovrebbe essere considerato più etico, e infatti ad esempio Oliver Stone, che vi si è abbondantemente ispirato, si deve considerare grosso modo un pacifista. O almeno, un regista che dichiara un’ideologia pacifista. Il dubbio però è forse questo: la dichiarazione pacifista corrisponde realmente a una motivazione (a monte) e a un effetto (a valle) pacifista? Sia la motivazione che l’effetto perseguito potrebbero in teoria essere tali, ma se essi sono passati attraverso l’ingranaggio holliwoodiano, se hanno ottenuto i più che cospicui finanziamenti (a monte) e incassi (a valle) è perché hanno accettato la logica holliwoodiana e hanno assecondato il gusto per il sangue dello spettatore più corrivo, sadico e morboso. Difficile stabilire fino a che punto ciò degrada il film dal punto di vista estetico: sicuramente l’estetismo della violenza non pregiudica capolavori come Full metal jacket di Kubrick, Apocalypse now di Coppola, o Il cacciatore, Il padrino o Taxi driver. Per non estendere il discorso ad altre arti, e ad esempio alla virtuosa estetica della crudeltà di un Hermann Nitsch, o di Artaud. Ma certo pone molti dubbi dal punto di vista etico.
Civil war, di Alex Garland, è il più recente esempio di questo tipo di film. I 2 antecedenti più diretti sono appunto Natural born killer, di Oliver Stone, che analizza fino all’esasperazione grottesca il rapporto fra i media e la violenza, e tutta la filmografia di Tarantino, per quanto riguarda il gusto per il sangue. Si tratta di un film notevole, girato da un regista di prim’ordine, probabilmente anche più sofisticato e intenso dal punto di vista visivo e formale degli altri due. Suspence, culto dell’adrenalina, il mito della libera informazione, raccontati con occhio immaginifico. Si potrebbe dire che il film sostanzialmente ha un plot old-holliwoodiano, un impianto ideologico new- holliwoodiano, e una visionarietà europea. Capita agli inglesi, come Garland. Nelle cui opere più significative prevale peraltro l’elemento immaginale, onirico e psicologico. Civil war è tuttavia un film che presenta le stesse ambiguità ideologiche di Stone e Tarantino, dichiara di voler denunciare, a ettolitri di sangue, la violenza, ma probabilmente se ne compiace e l’asseconda, o comunque ne scarica un’incalcolabile e straripante quantità. Voglio precisare che io sono del tutto contrario a quel puritanesimo miope e feticista che vorrebbe levare i soldatini e le pistole ai bambini, far resuscitare la Sirenetta e edulcorare i film di violenza, o in generale i film “crudi” (cade in questa critica ipocrita e woke anche l’ultimo bel lavoro di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire). Tutte queste cose hanno appunto la funzione di scaricare (come peraltro lo sport) in una forma etica, innocua e legittima, o se vogliamo utilizzare il vecchio termine freudiano di sublimare, quell’aggressività biologicamente e psicologicamente connaturata all’essere umano. Altro discorso però è se questo delicato e pericoloso meccanismo viene asservito al fine economico, come inevitabilmente accade al film filtrato dall’industria americana (qui la produzione è comunque anglo-usa). In questo caso, al di là magari anche delle intenzioni coscienti dell’autore, la valvola di sfogo finisce per funzionare come una pompa che alimenta e sostiene la violenza.
Viene infine naturale porre un’altra questione di natura ancora più eteronoma e extra-filmica. Come mai gli anglo-sassoni hanno tale e tanta aggressività da scaricare, da che dipende la loro fame anzi bulimia visiva di sangue, di morti, di guerre, di western, di gialli, di delinquenza e conflitti vari – che sostiene il 90% della loro produzione cinematografica? E riescono con questi film a scaricarla tutta, quell’aggressività? Il mio sospetto è che due paesi abitati da tali registi e da tali spettatori, non possano poi che perseguire una politica violenta, sotto forme imperialiste camuffate da democrazia. Ed è quello che infatti è accaduto per 100 anni e più e che purtroppo continua ad accadere.