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Chiarire, questo è il compito dell’arte. Chiarire un segmento storico attraverso un atto, quello poietico, metastorico. Una delle molteplici espressioni dell’arte è l’essere linea guida per il mutare dei tempi, luce che si apre sul presente, è l’intuizione di una mente che trascende il dato immediato e lascia segnali per interpretare il futuro. Tocca a noi, occhi che scrutano, gestire queste informazioni, archiviarle, riordinarle e… rilanciare altri segnali per nuove intuizioni. Questo è quanto  Pietro Turco, artista salernitano, fa attraverso le sue manipolazioni digitali, intuisce un cambiamento e costituisce il cambiamento stesso attraverso il suo operare.

Questo cambiamento di cui qui si discute è esattamente il passaggio dalla mail all’e-mail, dalla società della comunicazione (mail) alla società dell’informazione (e-mail), con tutto ciò che questo salto nel buio comporta in termini stilistici, tecnologici ed estetici.

Turco è stato parte attiva di quel movimento chiamato mail art che negli anni addietro ha invaso ogni angolo del globo, incarnando l’allora società della comunicazione: artisti, stanchi di esser chiusi nelle mura del loro studio, costruivano opere collettive a distanza di migliaia e migliaia di chilometri, gettando le basi di un’arte partecipativa, una protesta all’ottusità di certi vincoli e schematismi legati al concetto di autore, di artista stesso. Alla mail art vanno riconosciute, su tutte, due cose: l’aspro concettualismo (la riflessione sull’arte veniva resa opera d’arte) e il paradosso per il quale alla reificazione dell’opera corrispondeva una assenza fisica dell’autore, caratteristica che anticipa di almeno vent’anni un processo resosi chiaro solo con l’avvento dell’e-mail. Questa compenetrazione di presenza/assenza è il paradosso sul quale poggia l’intera società dell’informazione e tutti i suoi sistemi di comunicazione: per essere presenti in una telefonata occorre essere fisicamente assenti e questa apparente aporia è tutta risolta nella specificità degli oggetti culturali creati dalla società immateriale. L’estetica che ne deriva è una metafisica del fare – una metapoiesis –, che trapassa sia la teologia dell’essere, sia la più contemporanea teologia del disessere. Vale il titolo di un brano di Frank Zappa, Dio fa, non a caso realizzato con un Sinclavier, in digitale.

Qualche esempio può chiarire questo decisivo passo: negli anni ’70, Turco fece girare in tutto il mondo una cartolina in cui era scritta, a mo’ di beffarda lettera minatoria, una frase di grande precisione e sottigliezza: «l’autonomia di un’artista sopravvive solo nell’anonimato e nella inverificabilità della sua espressione»; ancora va ricordata l’opera che Turco inviò incompleta, con l’emblematico spazio vuoto e il testo «questo spazio è tuo!», a tutto il suo indirizzario, ricevendone in cambio decine e decine di opere partecipate, in cui si poteva già parlare di coautorialità e di smarcamento dell’opera dallo stesso ruolo dell’autore.

Per paradosso, gli estremi si toccano, e l’unica altra manifestazione dell’arte che presenta una simile dinamica di esautorazione dell’autore avviene nell’arte mistica, dove l’artista è puro veicolo di una ricezione spirituale, qualcosa che mette a terra in qualità non di autore ma di medium.

Ma  ci sono altri esempi molto interessanti, come la lettera contenente un piccolissimo talloncino nel quale si legge «l’arte è potenza non atto». E su queste parole «l’arte è potenza non atto» vale la pena di  focalizzarci pensando al mutamento epocale avvenuto tra gli anni ’70 e ’90, quando la posta diviene telefonia mobile e posta elettronica, la musica passa dal supporto ottico all’mp3, l’immagine dalla tela ai formati digitali come il *.jpg,  in un processo di riduzione della misura informativa direttamente proporzionale alla selezione delle informazioni necessarie. È con questo processo che l’arte si fa sempre più invisibile. Impalpabile.

Ma se nella mail art l’oggetto era ancora presente, per quanto ridotto a un talloncino o a una cartolina, ciò che Turco scriveva circa la potenza dell’opera oggi si è avverato ed è incontrollabile. In questa via crucis che parte dall’oggetto per giungere al file, assistiamo non solo alla smaterializzazione degli oggetti culturali ma soprattutto alla spersonalizzazione degli autori. Ed ecco che l’autore non si fa più portatore di una protesta, di un messaggio, di un concetto, ma genera opere puramente estetiche, genera immagini pure: Turco, passa così a essere un digital painter, reputando superata l’esperienza della mail art, si è spinto dal concetto alla sua estetizzazione radicale (e quindi immateriale, digitale), in certi casi fino a un feticismo lirico. Appunto, la serie dedicata all’organo Hammond viene così interpretata da Paolo Veronesi: «sì, è feticismo che carezza un centimetro quadrato di bachelite e ne fa un mondo». Quel mondo è un mondo immateriale dove non vige più alcuna regola corporea, un mondo che viene reso oggetto on demand, feticcio fisico di un’idea che ha posto lo stesso feticismo – nucleo di tutta la pop art – su un piano superiore, concettuale. Ma, a differenza della pop art, la cui ragione d’essere era proprio l’oggetto e la sua riproducibilità, nel post-pop digitale di Pietro Turco l’opera assurge a immagine di sé, staccandosi dalla sua oggettualità e si divincola dalla mercificazione divenendo davvero problematica.

A mio avvso, il nucleo della Marilyn di Andy Warhol – forse qualcosa che Warhol stesso non mise a fuoco consciamente –, trova il suo esito estremo nella Moana di Pietro Turco.

Per meglio spiegarmi, devo ricorrere a uno dei tanti ricordi degli anni di frequentazione con Pietro. Di Warhol abbiamo parlato tanto, anzi, a dire il vero ne abbiamo parlato praticamente sempre, dal primo incontro con Cristina Tafuri a L’arca e l’arco, all’ultima volta che ci siamo visti a Officina Mirabilis insieme a Fausto Lubelli, proprio all’inizio di questo infausto 2020. Durante la mostra sulla pop art che andammo a vedere insieme alle Scuderie del Quirinale, nel 2008, mi fece notare un dettaglio della Marylin che continua a farmi riflettere: l’immagine serigrafica della diva non riesce ad aderire mai pienamente allo sfondo, una massa di spessa materia pittorica.

Questo dettaglio lo ossessionava, ed è stata la spinta per fargli realizzare una transcodifica digitale della tecnica di Warhol, con esiti davvero intriganti, tra versioning, stampa esacromatica su strati materici e finiture pittoriche minimali.

La cosa che a me, invece, ossessionava era il paradosso che incarna.

È come se Warhol ci avesse inconsapevolmente comunicato che l’icona pop non aderisce mai del tutto alla realtà, c’è e non c’è, è presente e assente, è un’individualità spersonalizzata, una vita covissuta dalle masse che ne alterano l’identità. Ogni icona pop è un cortoircuito, oscilla tra eros e thanatos, vive nel e del consumo delle masse e ne muore consumata. Parimenti, le masse vivono del e nel mito della sua immagine ma ne muoiono spersonalizzate, prive di identità.

Tutto questo, Pietro Turco lo sintetizzò in un’icona estrema della pop culture, che realizzò proprio per mettere a terra le nostre digressioni tra pop e anti-pop, futurismo e anti-modernismo, estetica apofatica e metapoiesis: la sua Moana.

Moana incarna tutta l’ambiguità delle vere icone pop, tese tra creatività e distruttività, tra il darsi e il ritrarsi, tra mercato e cultura, consumo e dono. Esprime, inoltre, il nesso tra l’individualità partecipata delle icone pop e la coautorialità che Pietro precorse già nella mail art e che ha poi ritrovato nella digital art.

Ma è qui che fa un salto oltre, nella openness: avendo attraversato consapevolmente l’estetica pop, Pietro Turco ne governa con lucidità il paradosso e, se nella serialità si sviluppava quell’ombra di latente impossibilità a riprodurre un’icona, attraverso la digital art può riaprire l’opera alla possibilità di ricrearsi ancora e ancora.

Dal processo industriale seriale a un processo nuovamente artistico, potenzialmente all’infinito.

Vale la pena soffermarci sulle problematicità che nell’arte digitale si sviluppano di pari passo con le peculiarità del file. Pamela Samuelson, in un suo studio seminale ricostruisce in sei nodi la natura pluriversa e sfuggevole del file, anzitutto fa riferimento alla sua «facilità di replicazione», ossia «la tecnologia necessaria per usare un’opera digitale è spesso la stessa che può essere usata per realizzare copie multiple dell’opera». In effetti ogni copia di un software o di un e-book o di un digital paint può diventare l’industria di se stessa, producendo copie perfette (senza, tra l’altro, sottrarre l’originale all’autore). Va avanti sulla possibilità di «uso multiplo», cosa che già abbiamo visto nell’anima partecipativa della mail art, «le opere digitali possono essere trasmesse e usate da più di un utente».

Terzo punto, forse quello nodale, è la «malleabilità» dei mezzi digitali in cui è tutta iscritta la vera natura del file. Un file può essere tagliato, ampliato, corretto, cancellato, riscritto, è possibile apportarvi cambiamenti con una rapidità impressionante. Insomma per dirla con la Samuelson le opere digitali sono «intrinsecamente malleabili». La disamina continua sulla questione della «compattezza del  file», ossia lo spazio progressivamente inferiore che occupa un’opera digitale, poi passa alla «equivalenza delle opere in forma digitale» che abbatte la differenziazione tra generi di opere (poesia, pittura, musica e quant’altro) nel tutt’uno «non lineare» del file, aperto a infinite reti di link e informazioni.

La compattezza del file, che più sopra abbiamo definito come la riduzione della misura informativa, è la progressiva decrescita del numero di bites necessari a rappresentare un’informazione, ed è un problema-chiave per comprendere la sparizione degli oggetti culturali alla quale stiamo assistendo. Al fine di scambiarsi informazioni tramite internet il peso dei file è rilevante, matematica sperimentale e scienze probabilistiche da anni lavorano a sistemi di compressione e selezione delle informazioni per dare il massimo d’informazione con il numero minimo di bites. Per esempio il formato *.jpg delle immagini che si trovano in internet permette una riduzione dei bites di un fattore che va da 5 a 50 (da 1.000.000 a 20.000 bites).

Qui sorge il problema tecno-logico di Turco, poiché Turco ha deciso di incarnare il passaggio epocale dal corpo alla sua sparizione in un modo intelligente: non genera solo immagini (quindi puntando totalmente alla sparizione del corpo), bensì produce corpi ibridi che fluttuano dall’immateriale dei pixel al materiale della tela sintetica stampata in esacromia. Un oggetto on demand appunto. Ma per essere un oggetto tanto particolare l’opera di Turco, per es., necessita di speciali studi sulla riduzione informativa che gli hanno fatto portare la scala pixel/pollice dalla classica 1/10 dei 300 dpi a una ridotta sperimentalmente di 192 dpi, avendo stabilito che a 192 dpi ci fossero sufficienti informazioni per una corretta visualizzazione e una resa di stampa ottimale. Ecco che viene fuori il lato informatico della questione: dipingere con il computer significa riscrivere totalmente l’atto del dipingere e usare strumenti completamente nuovi, che danno vita a concetti inediti nel mondo dell’arte, come quello della risoluzione, della configurazione, della definizione, della selezione delle informazioni.

Ma basterebbe soffermarsi sull’origine dell’informatica per capire che gli esiti della pittura digitale vanno totalmente altrove rispetto alla pittura convenzionale: se alla base dell’informatica vi è il concetto di ‘archiviazione’ delle informazioni, il processo di generazione di un colore corrisponderà all’inserimento di un valore numerico in una tavolazza virtuale, con conseguente archiviazione di profili, colori specifici da poter riutilizzare pari pari all’infinito, azioni registrate da poter gestire secondo il criterio della malleabilità, fino a generare infinite possibili versioni differenti dello stesso file.

Tutto questo rende l’approccio all’opera analitico e non più semplicisticamente emotivo. Il mito dell’artista impulsivo, che dipinge di getto, di gesto, muore col pennello. Un artista oggi non può più pensare di dipingere solo gestualmente, sarebbe un folle che oltrepassa il limite e non sa più tornare indietro. Ma l’arte non è solo oltrepassare il limite, è anche sapere tornare indietro, rendere reversibile la propria azione, rendere malleabile la propria opera. Occorre sapere andare e sapere tornare. Questo è ciò che accade generalmente con l’arte concettuale, e ovviamente anche con l’arte digitale che ne è una estremizzazione: l’artista diviene genio analitico.

De facto, quella di Turco è un’arte spinta concettualmente, al di là del concetto stesso, verso la sua analitica estetizzazione. È un processo che valica il concetto di serialità della pop art, ossia la possibilità di usare la stessa idea, e non più duplicandola industrialmente migliaia di volte, bensì modificandola potenzialmente all’infinito, creandone versioni derivate, sempre diverse, sempre uniche.

Esempio meravigliosamente riuscito di tale concetto sono tutte le opere delle Labbra, declinate in mutazioni cromatiche, sempre aperte a un’ulteriore modifica. Un’opera di chiara ispirazione warholiana, ma chiave di un procedimento di produzione di originali-derivati e non di multipli industriali. Si palesa, così, un ulteriore paradosso temporale, perché è grazie al superamento tecnologico dell’arte industriale che l’artista torna a un bivio in cui ha gli strumenti per poter decidere se replicare industrialmente o ricreare artigianalmente la sua opera.

E Pietro Turco ha fatto una scelta estrema. L’opera di Turco è costantemente in progress, derivata di se stessa, svincolata da se stessa, autonoma. E più è autonoma l’opera più si invera quell’inverificabile autonomia dell’artista di cui egli stesso parlava al tempo della mail art. Un’opera sempre aperta, dunque, capace di intuire quei segnali di cambiamento che fanno vibrare l’aria, capace di produrre un’apertura nello spazio cognitivo, attraverso la quale intuiamo che probabilmente il prossimo cambiamento a venire sarà proprio la definitiva  openness della percezione umana.

 

(Pietro Turco, 1953-29/08/2020)

 

NOTA POSTUMA

A dieci anni di distanza dalla prima stesura di questo testo, a ben riflettere c’è un tratto umano di Pietro che è comune sia alla mail che all’e-mail. Non è il paradosso di essere presenti/assenti, tuttavia nodo cruciale del suo lavoro, ma la necessità di creare un link, un ponte tra sé e l’altro. Nessuna comunicazione, nessuna informazione, nessuna opera d’arte può prescindere da questo nesso tutto umano: inverarsi nel contatto con l’altro, vivere nell’apertura all’altro. Connettere vite, in definitiva, è il meraviglioso messaggio che, da artista, da musicista e da uomo, Pietro ci lascia.

 

 

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