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Produci, Vincenzo Notaro

La politica come professione (Politik als Beruf) è del 1919. Lo stesso anno de La scienza come professione. In apertura, Weber dichiara che probabilmente deluderà gli ascoltatori che dovessero aspettarsi una presa di posizione sull’attualità (cosa che arriverà solo alla fine del discorso), perché la sua analisi riguarderà non tanto i contenuti, quanto il significato dell’agire politico.
Weber comincia chiedendosi: “cos’è la politica?”. È necessario – risponde lo studioso tedesco – restringere l’usuale significato comune, per riferirsi specificamente “alla direzione o all’influenza esercitata sulla direzione di un gruppo politico, vale a dire – oggi – di uno stato”. E poi Weber si chiede cosa siano, in termini sociologici, un “gruppo politico” o lo “stato”. Essi non sono caratterizzati tanto dal riferimento a contenuti (perché dati i vari aspetti che essi assumono non sarebbe possibile), quanto dall’uso di un mezzo specifico: esso è l’uso legittimo della forza fisica in un territorio. Quello della forza, specifica Weber, non è l’unico mezzo o quello necessariamente normale, ma appunto quello specifico: “lo stato è quella comunità di uomini che, all’interno di un determinato territorio […] pretende per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica”.2 La politica, in relazione al gruppo politico si caratterizza poi come “aspirazione a partecipare al potere”.3
Nel pensiero di Weber al riguardo si crea allora la convergenza dei tre concetti: politica-potere-forza. Il potere può essere perseguito in sé, per il prestigio che procura, o per il conseguimento di un fine. E qui egli riepiloga il suo pensiero, espresso altrove, con il riferimento alle possibili forme di legittimazione del potere, cioè ai tre idealtipi: Potere tradizionale, potere carismatico, potere legale. Il discorso che qui più interessa Weber è quello relativo al secondo idealtipo, che considera il capo per vocazione”, il “capo politico”, quello che nel mondo occidentale è il capo partito parlamentare, ed è dunque un politico di professione. Altri politici di professione, che gli si affiancano, sono quelli che vanno a costituire l’apparato amministrativo, e che gli sono legati per motivi vari, che vanno dalla ricompensa materiale all’onore sociale.
Allora, dice Weber, bisogna distinguere tra “politici d’occasione” e “politici professionali” e, tra questi, quelli per i quali la politica è la professione principale e quelli per i quali è una professione secondaria. E va distinto, sostanzialmente, fra il vivere per la politica e il vivere di politica.4 Nel primo caso, in cui la politica non è la professione principale, bisogna disporre di un proprio introito, in genere più una rendita fondiaria che il profitto di un’impresa, la cui conduzione non lascerebbe il tempo necessario alla politica (per cui, secondo Weber, non potremmo trovare in questo campo, per motivi diversi, manager o operai). Questi personaggi, è ovvio, potrebbero poi sfruttare la politica anche per motivi economici. Dall’altra parte, però, pure coloro che vivono di politica, traendo direttamente da essa il proprio sostentamento, possono pensare anche alla “causa”.
Nella seconda categoria rientrano coloro che costituiscono gli apparati burocratici, fino a funzionari e dirigenti. Quelli che vivono di politica possono essere stipendiati o venire diversamente remunerati, ad esempio con il cosiddetto patronato delle cariche (lo spoils system), per cui, in cambio dei servizi resi, vengono posti a capo di una serie di strutture pubbliche, come è consuetudine in America, sottolinea Weber.
Oggi, dunque, esiste una moderna burocrazia di lavoratori intellettuali altamente specializzati, sviluppo di un ceto sorto cinque secoli fa al tempo delle signorie italiane. La burocrazia e il ceto dei dirigenti politici sono costituiti da quelli che Weber chiama “dotti iniziati”, dei quali il principe cominciò a servirsi per ridurre il potere dell’aristocrazia, nel tentativo, inoltre, di ottenere una direzione politica unitaria. In Inghilterra (altro paese accanto all’Italia in cui si gestì la nascita di questo ceto politico-amministrativo-intellettuale) nacque la figura del capo di gabinetto, cioè il primo ministro, leader di una maggioranza fronteggiata da una minoranza d’opposizione.
I dotti iniziati sono dei funzionari politici specializzati, una forza lavoro intellettuale costituita da persone che sanno leggere e scrivere. Sono gli intellettuali “cortigiani” a diventare politici professionisti per essere usati dal re contro i “ceti”, cioè l’aristocrazia che prima svolgeva funzioni amministrative e esercitava la giustizia. Essi erano chierici, presumibilmente disinteressati, o letterati umanisti,5 come in oriente il mandarino cinese, o, più tipicamente occidentali, e specificamente italiani, come i giuristi. Uomini di chiesa e di legge, dunque, fra gli altri. Specifica Weber come lo stato moderno di carattere razionale sia sorto dalla convergenza del diritto romano e del pensiero cristiano secolarizzato. Da qui la genesi dello stato assoluto. D’altra parte, nella rivoluzione francese agirono svariati giuristi radicali. E nell’attività politica ancora in tempi recenti – osserva Weber – sono presenti in misura cospicua avvocati che, con la loro abilità oratoria, riescono a perorare la causa del partito, in un matrimonio fra politica e parola che interessa altri specialisti della parola come i giornalisti, anch’essi in buon numero in politica, per proclamare un altro matrimonio fra politica e stampa, la cui importanza è ben evidente a tutti.6 Il ruolo degli esperti della parola si spiega con il fatto che spesso la conquista del potere non avviene attraverso il mezzo specifico della forza, ma anche attraverso una pacifica propaganda nel quale è fondamentale la figura dell’intellettuale.
La questione dell’uso della forza, e dunque della violenza, in politica chiama in causa il rapporto di questa con l’etica, cosa che Weber affronta nella parte finale del suo lavoro, chiedendosi se esista etica in politica. La violenza è forse accettabile solo in relazione a certi fini, come fanno i rivoluzionari bolscevichi (ricordiamoci che siamo a ridosso della rivoluzione russa)? A ogni modo, dice Weber, non è possibile un’unica etica: ad esempio, l’etica assoluta cristiana vale per il santo, ma non per la politica.7 In politica talvolta, sostiene Weber, bisogna pur opporsi al male con la violenza. Talvolta il rivelare apertamente la verità può essere deleterio per un buon risultato politico. L’etica assoluta, infatti, non si interroga sulle conseguenze. Weber distingue allora fra una “etica dei princìpi” (assoluta) e una “etica della responsabilità” (che prende atto delle conseguenze). Talvolta – continua Weber – per un fine buono servono dei mezzi dubbi, e il mezzo decisivo spesso può essere la violenza. Si comporta con tale spregiudicatezza anche chi non lo ammette: i rivoluzionari, contrari alla guerra, si dichiarano pure pronti alla sua prosecuzione se questa potrà favorire la rivoluzione, per la quale si può pure accettare una ultima violenza come l’insurrezione armata. Anche le religioni ammettono una violenza legittima. La politica – secondo Weber – è sempre un patto con “potenze diaboliche”.8
Dunque, etiche diverse, in una lotta di valori, o quella che Weber chiama ancora “lotta di dei”, un politeismo, un relativismo (richiamato anche qui come nella precedente conferenza). Quella del filosofo e sociologo tedesco sembrerebbe dunque una Realpolitik, nella quale si prende atto soprattutto dei limiti dell’agire umano e delle condizioni reali nelle quali esso si realizza. Eppure, alla fine Weber afferma che il vero capo deve mirare non solo al possibile ma anche all’impossibile, in una dimensione eroica che sappia contemperare l’etica della responsabilità con quella dei princìpi. Chi ha “fermezza interiore” e sa “resistere al naufragio di tutte le speranze”, “soltanto quest’uomo ha la ‘vocazione’ per la politica”.9 Una chiusa ambigua, quella del suo discorso sulla politica, come ambigua è la visione del progresso di Weber: da un lato questo richiamo alla fermezza e quindi anche alla speranza, dall’altro, poco prima, la dichiarazione di aspettativa non di una “fioritura dell’estate”, ma di “una notte polare di gelida tenebra e di stenti”, dunque l’anticipazione di quella “epoca della reazione”10 che di lì a poco l’Europa avrebbe visto, e in particolare la Germania di Weber, che per essa pure auspicava un capo, ma non quello che poi sarebbe giunto. Ma lui questa stagione non la vedrà. La morte lo coglierà nel 1920, nella terribile epidemia di spagnola che fece seguito alla prima guerra mondiale e che spense anche la sua vita.

Max Weber, “La politica come professione”, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni di Comunità, Milano 2001, p. 43. (Sottolineature dell’Autore).
2 Ibid., p. 44. (Sottolineatura dell’Autore).
3 Ibid., p. 45.
4 Cfr. ibid., p. 53.
5 “Vi è stato un tempo in cui si imparava a fare discorsi in latino e versi in greco allo scopo di diventare consiglieri politici e, sopra ogni cosa, storiografi di corte di un principe” (Ibid., p. 64.).
6 Si richiama qui l’attenzione sul fatto che tale unione – politica e stampa – è ben rappresentata nell’Italia postunitaria, dal romanzo di Federico De Roberto, L’Imperio (seguito del più famoso I Viceré e conclusione della trilogia dedicata alla famiglia degli Uzeda), i cui due protagonisti sono un aristocratico siciliano eletto nel parlamento del Regno d’Italia e un giornalista politico originario di Salerno.
7 Cfr. ibid., p. 100.
8 Ibid., p. 105.
9 Ibid., p. 113.
10 Cfr. Ibid., p. 112.