
Le canzoni curano le ferite dell’anima. Possiedono una forza intrinseca inspiegabile, un potere mistico, sacrale, capace di risanare, ricucire, riempire le crepe che ci portiamo nel cuore, nel sangue, nelle ossa.
L’ho imparato presto, e sulla mia pelle. Sarà per questo che sono diventato un cantautore, per sanare le ferite della mia di anima e provare, attraverso le mie canzoni, a risanare quelle degli altri.
Una di queste ferite si chiama Mario Paciolla. È una ferita personale e collettiva insieme: per me è la perdita di un amico, per la città di Napoli è la perdita di uno dei suoi figli più belli.
Mario Paciolla è stato un giornalista, un attivista, un poeta, uno spirito libero, assassinato in circostanze tuttora da chiarire il 15 luglio 2020 in Colombia, dove prestava servizio come cooperante ONU. In suo ricordo ho scritto una canzone, Sempe Ccà, che è diventata nel tempo un manifesto di impegno civile e sociale, un’invocazione di giustizia, una preghiera di verità. E adesso, a distanza di due anni dalla sua uscita, voglio provare a raccontarvela, facendovi entrare in quello che è stato il processo creativo di una canzone che non è mai stata soltanto una canzone.
Partirei proprio da questo: una canzone non è mai soltanto una canzone. Una canzone è un’istantanea di un momento storico, di una vita, di una storia che sentiamo l’esigenza di fermare nel tempo e il cantautore è uno strumento, un veicolo che dà corpo e voce a questa storia e lo fa tramite il potere dirompente e mai mediato della musica. Se è vero, come è vero, che la musica e l’arte tutta servono cause più grandi di noi. Cause di impegno, dissenso, resistenza, dedizione.
Sempe Ccà ha la forma di una lettera, una lettera che un figlio scrive alla madre lontana. È una lettera di ricordi, di malinconia, di rabbia e di speranza, ma soprattutto è una lettera d’amore. Amore che animava la vita del mio amico, amore che anima i suoi genitori, Anna e Pino, che ho avuto modo di conoscere e condividere con loro il percorso di verità e giustizia che hanno intrapreso strenuamente dalla tragica scomparsa del loro figlio.
È una lettera che parte da un sentimento di mancanza e per scriverla, la mancanza, la perdita, l’assenza, devi averla conosciuta altrimenti non riesci a scriverne. Io la conosco. Nel 2020 ho perso mia madre. È una ferita che non si rimargina mai, una ferita che ti scava dentro fino a privarti di tutta l’innocenza e ti apre, violenta, gli occhi sull’inesorabilità della vita.
Quando ho iniziato a scrivere la canzone mi sono chiesto più volte e più volte cosa faremmo se avessimo ancora l’occasione, una sola ora di tempo per riabbracciare una persona cara che abbiamo perso. Sapevo che se fossi riuscito ad esprimere questo sentimento attraverso le parole, avrei trovato la scintilla per scrivere una canzone onesta, vera, sincera. Bene, se avessimo un’occasione del genere, so per certo che non diremmo niente, non faremmo niente se non stringere quella persona il più forte possibile a noi, illudendoci che se stringiamo più forte davvero questa non andrà più via:
Si tenesse n’ora ‘e tiempo
Pe’ sta cu’ te
‘Na vota ancora
M’astregnesse a te
Senza parlà
Comm’a ‘na vota
Queste prime due strofe sono un ponte con il passato, che rimandano a quell’innocenza perduta del “comm’a ‘na vota”, quando bastava abbracciare nostra madre per sentirci protetti da tutte le brutture che il mondo ci presentava sotto i nostri occhi di bambini. Da qui il passato, i ricordi, si mescolano al presente che si apre sulla strofa successiva, in quella che potrebbe essere una telefonata tra madre e figlio o uno scambio di messaggi di sabato sera:
Si tenesse ancora n’ora
Nun ce penzà
Va bbuono accussì
Dimane po’ se vede
E tu che faje stasera?
T’o giuro
‘Na smania ‘e partì
La smania, il desiderio irrefrenabile di partire e viaggiare per il mondo, era una costante nella vita del mio amico: lo ricordo incontrarci a Piazza del Gesù, qui a Napoli, o a Piazza Bellini, e raccontarci dei suoi innumerevoli viaggi. Così come ricordo la scintilla nei suoi occhi quando ce ne parlava. È questo sentimento che lancia il ritornello, il primo, che racchiude il fulcro, il senso e l’essenza di tutta la canzone: l’amore non muore mai e le persone che perdiamo non vanno mai via veramente. Restano per sempre con noi, dobbiamo soltanto sapere dove cercarle e le troveremo.
Vulesse ‘na voce p’alluccà ancora
Astregneme ‘e mmane
Fammello sentì
Pe’ quanto è ‘o dulore
St’ammore nun more
Ind’a stu cielo tu circame
Sto sempe ccà
La canzone diventa adesso oscura, cupa, arrabbiata, tagliente. La morte di Mario fu, fin da subito, bollata come suicidio dalle autorità colombiane nonostante le dinamiche riguardanti la sua scomparsa, i ritrovamenti degli oggetti nella sua casa, persino l’autopsia rivelassero che Mario non si era suicidato, ma era stato assassinato. Non è questo né il luogo né il momento per entrare in questi dettagli, ma vi invito a documentarvi ed approfondire la vicenda. Tornando alla canzone, mi sono soffermato, nella strofa che segue, su un concetto ben chiaro: Mario è il solo a sapere la verità, una verità che ci sfugge perché insabbiata, nascosta, volutamente ignorata. Se solo lui potesse dircelo…
Si putesse, mà, ie te cuntasse
Qual è ‘a verità
Ma chiove, chiove sempe
E nun s’asciutta cchiù
‘O sole, ‘o sole addò stà?
E di nuovo quel ritornello, che adesso diventa un mantra, una dichiarazione d’intenti, una presa di posizione: mi hanno strappato alla vita sì, ma io sono “sempe ccà”, sono sempre qua. Mi vengono in mente le parole di The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen: “Look in their eyes ma, you’ll see me.”
La melodia, il ritmo si fanno adesso più incalzanti e nervosi e arriviamo al middle eight, la parte più dichiaratamente politica di tutta la canzone. Quando la scrissi avevo in mente il coro di voci che John Lennon mise su per Give Peace A Chance, un altro grido politico di dissenso, ribellione, resistenza. Di pace. Qui mi rivolgo all’ascoltatore non più in prima persona e non più dal punto di vista di Mario, ma uso il plurale, quello di un’intera comunità che invoca verità e giustizia. Le ho immaginate come due entità, due divinità che sembrano mostrarsi sorde all’invocazione di chi le cerca strenuamente, così come strenuamente stringe i denti e, senza demordere, continua la sua ricerca:
Giustizia e Verità v’hate annascuso bbuono
C’hate scurdate e po’ lassate sule
Giustizia e Verità nuje ve cercammo ancora
Astritte e cu’ na voce sola
Di nuovo il ritornello, adesso la voce è ridotta a un sussurro. Un attimo di pace prima di esplodere nuovamente e più potente e ripetere “sempe ccà, sempe ccà, sempe ccà”.
Credetemi ho cantato questa canzone in tante e tante occasioni, dalla commemorazione ufficiale in occasione dell’anniversario della scomparsa di Mario al Carcere di Secondigliano davanti un centinaio di detenuti, ed ogni volta è come se fosse sempre la prima volta. In fondo è così. Sì, perché l’amore è sempre nuovo e si rinnova continuamente attraverso la canzone, lo amplifica, lo trasforma lo trasfigura fino a farlo diventare universale, condiviso, collettivo. È l’amore che ci salva, ci redime e ci rende migliori. L’amore è la vera, sola e unica resistenza che possiamo opporre alle tenebre che ci stanno incalzando in questi tempi oscuri.
Le canzoni possono mai essere SOLO canzoni? Non credo proprio.
Ho provato a spiegarvi cosa ha significato per me scrivere Sempe Ccà, cosa significa oggi e cosa provo ogni volta che la canto. Spero di esserci riuscito.