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Vincenzo Notaro, Guerra

Secondo l’indagine condotta da una studentessa dell’Università Alma Mater di Bologna, posto a un euro il prezzo di uno snack tradizionale, la maggioranza degli intervistati, indipendentemente dalla fascia di reddito di appartenenza, sarebbe disposta a spendere almeno settanta centesimi in più per uno snack di Superfood. Parliamo di un ulteriore 70%, pur di soddisfare un bisogno specifico, eppure, in termini di risorse globali, la differenza tra quello che crediamo di pagare e quello che paghiamo veramente potrebbe essere superiore.
Partiamo dalle definizioni: i superalimenti sono un brand senza brevetto, una categoria di cibi (di origine vegetale, rigorosamente naturali o al massimo mediamente lavorati) dalle caratteristiche nutrizionali particolarmente elevate e benefiche per l’organismo, quelli dei quali sentiamo quotidianamente gli slogan e che non stupirà di riconoscere nelle espressioni “ricco di omega-3, vitamine, sali minerali, probiotici” e via discorrendo.
Prevengono le patologie cardiovascolari, donano energia, rafforzano il sistema immunitario. Amiamo riconoscerne le proprietà nutraceutiche dal loro colore (per esempio i frutti di colore rosso-blu come il melograno che contengono flavonoidi, dagli effetti antiossidanti, tonificanti dei vasi sanguigni e antivirali), della categoria fanno ormai parte degli intramontabili che nel nostro immaginario rappresentano il cibo salutare per eccellenza: la frutta secca, per esempio, oppure lo zenzero, la sempreverde bacca di goji (che però è rossa e forse ha fatto un po’ il suo tempo), la soia (che pure è povera di Vitamine B così spesso ne è arricchita) e chi può dimenticarsi del ginkgo biloba? Ma attenzione: se una volta ci piaceva l’idea di curarci col propoli, ora che siamo più informati e curiosi non ci facciamo mancare neanche il kefir, che ha recentemente ricevuto la consacrazione da parte dell’agroindustria con un prodotto in vendita nella distribuzione organizzata, e soprattutto la mirabolante spirulina, la fantastica alga equatoriale che, a parità di peso, contiene 3 volte le proteine della carne, 20 volte il betacarotene delle carote, 10 volte il ferro degli spinaci e 3 volte il calcio del latte. Coltivazione straordinariamente sostenibile, dal sapore improbabile e dal colore tutt’altro che appetitoso.
Ma non facciamoci troppe illusioni: l’Istituto superiore della Sanità ha già bollato i Superfood come ritrovati del marketing, e dal 2007 l’Unione Europea ha vietato di apporre sulle confezioni non solo questa definizione ma anche la pretesa di eventuali effetti benefici o addirittura terapeutici per la salute (health claims), a meno di non avere “solide evidenze scientifiche in grado di provarli”.
È un po’ quello che sta alla base dei cosiddetti “cibi funzionali”, caratterizzati da una composizione a base di elementi che hanno effetti benefici sull’organismo o su alcune delle sue funzioni, riducendo il rischio di determinate malattie a prescindere dal contenuto nutritivo. Ciò che li distingue dai superfood è che tali elementi possono essere: naturalmente presenti nell’alimento, non presenti naturalmente nell’alimento ma aggiunti, o ancora presenti nell’alimento ma incrementati in quantità. E infatti alcuni tipi di latte arricchito con Omega-3, yogurt con aggiunta di probiotici, cereali vitaminizzati e arricchiti con sali minerali… Sono già tra noi e non da poco tempo.
La scienza li definisce come alimenti contenenti ingredienti che generano effetti positivi sulla salute dell’” ospite”, e il bello è che col termine “ospite” si intende noi umani che li mangiamo.
Ma questo non è uno spot. È una semplice presa d’atto che stiamo parcellizzando il piacere del cibo in casellari dello scopo, imponendoci di nutrirci secondo le indicazioni nel bugiardino delle mode alimentari, piuttosto che in base ai nostri gusti. Il “buono” perde sempre più terreno appannaggio del “pratico”, quasi come se per andare a fare la spesa non fossimo titolati abbastanza, quando per comprare una pera dobbiamo necessariamente sapere cosa sono gli amminoacidi.
Nessuno sarà mai contrario a un riso che non fa venire il diabete (land grabbing permettendo) ma demonizzare il cibo vero, accusato spesso e volentieri di essere causa dei malesseri più svarianti soprattutto quando si fanno ricerche on line, non deve essere l’alibi per stravolgere le abitudini alimentari convenzionali. E allora via il tuorlo d’uovo perché fa venire il colesterolo, ma teniamoci l’albume che fa diventare i muscoli elastici, via le castagne perché mettono aria nella pancia, i legumi pure (a meno che non sia la soia) e benvenuti agli integratori in bustina, alla pasticca al mirtillo, e ogni forma di pocket food che ci liberi dall’impiccio dell’unto e magari anche delle briciole.
Senza contare che spesso “saporito” è associato all’idea di “ipertensivo”, forse anche perché l’agroindustria ci ha sapientemente condotti negli ultimi decenni lungo un percorso di atrofizzazione della sensorialità, di standardizzazione dei gusti che, quando tutto manca, possono essere blandamente ripristinati attraverso qualche edulcorante. Pensate che in questi esaltatori di sapidità possono finire anche ossa di animali polverizzate, tant’è che qualcuno si è deciso finalmente a ribellarsi, soprattutto tra i professionisti della somministrazione, al grido di “almeno ditecelo”.
La destinazione di risorse all’acquisto di superfood, integratori o i cibi arricchiti si evidenzia in una domanda sempre crescente di contenuto di servizio, più che di valore sensoriale, da parte dei consumatori.
Un valore che non solo si sposta nelle quote di mercato delle aziende (per lo più multinazionali) in grado di fornire tale servizio (alla stregua di semilavorati e condimenti già pronti per velocizzare i tempi di cottura), ma che ha un costo decisamente superiore al differenziale di cui si accennava all’inizio dell’articolo e che la cronaca recente ci ricorda essere pagato da qualcun altro con la vita, al misero scopo di farci spendere 20 centesimi in meno per un chilo di pomodori.
Una ricchezza concentrata nelle mani di pochi portatori di interesse e verticalizzata lungo la catena del valore e che ormai risale fino al fattore produttivo terra, con l’acquisizione di terreni in paesi con fragili norme sulla proprietà terriera, che consentono ai governi di locali di locare o vendere terreni a società straniere in cambio di capitali vitali per i disastrosi bilanci statali, con il corrispettivo del più libero arbitrio nell’impianto di sistemi agricoli monocolturali. Ne sono un esempio l’olio di palma (surrogato molto più economico di altri ingredienti grassi) e la stessa soia.
Analizziamo il caso della quinoa, altro superfood noto per la sua alta digeribilità rispetto ad altri legumi e per le proprietà anti-invecchiamento.
Margherita Dalpiaz, istruttrice di fitness, ha dedicato la propria tesi di laurea presso l’Università degli Studi di Trento a questo alimento, mettendo in luce come all’inizio si sia rivelato un vero e proprio propulsore economico per i contadini sudamericani che la coltivavano. Anche in questo caso si tratta di un cibo di tradizione millenaria, la cui coltivazione è triplicata tra il 2008 e il 2015. L’iniziale aumento del prezzo ha contribuito non poco alla retribuzione del lavoro dei contadini, se non fosse che l’intensificazione della produzione monocolturale è derivata nell’utilizzo massivo di concimanti industriali e nello sfruttamento intensivo del suolo, che ne è risultato drammaticamente impoverito, sottraendolo peraltro ad un’altra attività tradizionale come l’allevamento dei lama, con gravi conseguenze ambientali e relativo dispendio di risorse idriche. Dal 2014 in poi il prezzo medio al produttore è calato fino a circa il 60%, provocando anche la diminuzione del valore medio della produzione, di pari passo con la diffusione delle piantagioni in altri 70 paesi europei e statunitensi, nei confronti dei quali l’Italia, per esempio, è diventata uno dei principali importatori con un volume pari quasi a 4000 tonnellate annue.

Quanto ci costa, in definitiva, “ospitare” i Superfood su questo pianeta? Questa presenza salvifica ma ingombrante, un po’ come un Superman, ve lo ricordate? Arriva lui per difenderci dagli alieni che sono arrivati perché… Sulla Terra c’è lui.
Sbanda l’elettrocardiogramma? Cede il menisco? Spuntano intolleranze e allergie?
Questo è un lavoro per Superfood!

 

Fonti:

https://www.issalute.it/index.php/la-salute-dalla-a-alla-z-menu/s/superfood 

https://www.giornaletrentino.it/cronaca/trento/luci-e-ombre-della-quinoa-il-superfood-del-momento-1.2222639

https://www.slowfood.it/category/tema/land-grabbing/ 

  •  Politecnico di Milano, Facoltà del Design – Corso di laurea magistrale in Design & Engineering – Tesi di laurea di Silvia Miscoria
  • Università Politecnica Delle Marche – Corso Di Laurea Magistrale In Biologia Molecolare E Applicata – Tesi Di Laurea Magistrale di Eleonora Braconi 
  • Alma Mater Studiorum Università di Bologna – Corso di Laurea triennale in Economia e marketing nel sistema agro-industriale – Introduzione alle ricerche di marketing – Il SUPERFOOD: indagine sulle abitudini di acquisto e consumo di frutta secca ed essiccata – Tesi di laurea di Elena Ferraresi.Guerra, Vincenzo Notaro