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Penombra, Vincenzo Notaro

Martedì, quindici agosto. No, non c’erano dubbi, né concrete speranze di essermi sbagliato. Il mio efficientissimo strumento di tortura cronologica giapponese squittiva sibili elettronici da oltre dieci minuti. Tra i vari numerini gialli e quadrati che proiettava nella semioscurità della stanza c’erano un quindici ed un otto che non mutavano come tutti gli altri. Restavano lì, fissi, immobili, e mi guardavano, sparandomi tra le pupille gonfie e intorpidite un immutabile interrogativo: “E adesso…?”. Dalla posizione sud-sud-est del letto, in cui mi avevano condotto i sussulti e i contorcimenti di un sonno sconfinato di cui non ricordavo più l’inizio, tenevo l’ordigno nipponico sotto tiro. L’alluce del piede destro fungeva da mirino. Se avessi voluto avrei potuto sciogliere le briglie ai tendini della gamba, e fracassare l’arnese, una volta per tutte, con un calibrato, orientalissimo colpo di karate. Ah, quale gratificante e beatificante contrappasso!
Non sarebbe servito a molto, tuttavia. Non potevo fare a pezzi con un identico calcio anche quell’altro scatolone, verniciato di giallo fosforescente e inchiodato lassù, in alto, dal quale colavano raggi bollenti e inarrestabili che si infiltravano attraverso le minuscole fessure delle serrande. Fu così che usai il piede solo per compiere, come sempre, l’unico esercizio ginnico della giornata: allungamento dei muscoli del quadricipite, torsione laterale del piede, e schiacciamento del pomello della sveglia con il tallone. Il brutto cominciava dopo, appena terminato di appoggiare il medesimo piede sul pavimento della camera. Già, e adesso…? Che faccio?
Come una specie di Robinson Crusoe, naufrago sulle sponde desolate dell’isola di Ferragosto, decisi di procedere ad un rapido resoconto mentale dei “pro” e “contro” della situazione. Per ragioni di praticità iniziai dai pro: il fatto di aver rifiutato i canonici inviti mortadel-balneari di due o tre colleghi con tanto di moglie-canotto e figli-mosconi, e l’aver rinunciato a priori a seguire le peregrinazioni autostra-disco-sessual-velleitarie di un gruppuscolo di amici, mi poneva nell’idilliaca condizione di chi non deve lambiccarsi il cervello per ponderare e scegliere. Nessuna alternativa, nessun dubbio. Alé! Tutta gioia, tutto bene!
Lo squillo del telefono mi evitò, con mio enorme sollievo, di affrontare le lande sterminate dei “contro”. A tutt’oggi non ho ancora ben capito se la voce di Erica sia naturale e genuina, o se invece sia prodotta da un complesso sistema di sintetizzatori e amplificatori opportunamente piazzati all’interno del suo corpo soffice e opulento da luccicante bambola sintetica. Quel giorno però mi fece talmente piacere udirla, che non mi posi neppure per un attimo il rituale interrogativo. Mi limitai ad ascoltare, a ridacchiare ogni tanto, fuori tempo e fuori luogo, e a dire di sì, in continuazione. Quando riappesi mi resi conto che avevo appena accettato un invito a dir poco scomodo. Si trattava di partire dalle mie campagne, e percorrere, sotto il sole ottuso e letale del primo pomeriggio, l’oceano di asfalto che mi separava da un punto sconosciuto, sperduto nel vasto arcipelago della periferia di Milano. Il tutto in cerca di quale isola, e di quale tesoro? La risposta sarebbe evidente, e del tutto scontata, se non si dovesse tener conto di un particolare. Io Erica la conoscevo da anni, e la conoscevo fin troppo bene. Anzi no, non la conoscevo abbastanza. Nonostante i periodici incontri ai party, alle ricorrenze varie e alle celebrazioni pagane e pallose di qualche comune amico, continuavamo ad essere due cordialissimi estranei, due punti interrogativi collocati alle estremità opposte di una riga bianca.
Le nostre rare e telegrafiche conversazioni avrebbero fatto la gioia di Beckett, di Kafka, e forse anche di qualche psicanalista ficcanaso e un po’ sadico. Non sono mai riuscito a capire se fosse lei a prendere in giro me o viceversa. Fatto sta che ogni singola volta che io, attratto dalla sua sfavillante carrozzeria metallizzata, entravo nella sua sfera d’azione, lei mi ascoltava ghignando ripetutamente in modo quasi impercettibile, poi, puntualmente, mi metteva KO con una osservazione, o con una domandina tanto innocente quanto micidiale. Un congegno automatico nascosto dentro di me allora si ribellava, e mi catapultava nella spirale strangolante del sarcasmo corrosivo, che in breve trasformava il dialogo in un incontro di scherma, un continuo alternarsi di impeccabile etichetta e di sciabolate fulminee e rabbiose. Fin qui niente di male né di straordinario: per quel nobile sport ero già ottimamente allenato. Il grave è che le stoccate scambiate con Erica ad ogni riflessione a mente fredda mi lasciavano dei dubbi colossali. E se dopotutto con quel suo atteggiamento scostante e sprezzante non avesse voluto sfottere niente e nessuno? E se in fin dei conti quelle sue uscite da palmipede inacidito fossero state ispirate solamente da legittima indifferenza e sacrosanta noia? Sì, insomma, che diritto avevo di pretendere a tutti i costi di essere qualcosa di più interessante e piacevole di un cortometraggio bulgaro sulla vita dei salmoni dell’Alaska, per lei?
Non c’era dubbio. A ben pensarci il suo comportamento era sicuramente degno del più assoluto rispetto e della più profonda comprensione.
Anche quel giorno lontano, imprigionato tra le branchie dell’aria che annaspava spasmodicamente in cerca di ossigeno, dovetti di nuovo ribadire questa solenne quanto vana conclusione. Certo, era tutto vero… ma. allora… la telefonata…? Mai e poi mai avrei pensato che lei, in quel particolarissimo giorno, avrebbe chiamato me.
Sì proprio me. Per quale ipercomplicata serie di circostanze si era ritrovata, anzi ridotta, a dover chiamare uno con il quale aveva rapporti tiepidi come iceberg? Lei, che nella mia immaginazione era perennemente circondata da stormi di calabroni in cerca di polline, forse era rimasta completamente sola, come una stella alpina tra rocce squamose e infuocate. Già, forse. Il nodo della questione era tutto in quel forse. Conoscendo il tipo non era del tutto da escludere la possibilità che mi facesse attraversare mezza Italia, per poi confessarmi candidamente, una volta arrivato a casa sua, che aveva bisogno di qualcuno con la macchina che la accompagnasse da un suo amico a Riccione.
Mentre toglievo dal parcheggio la mia eroica Renault Cinque anni settanta questo dubbio era una specie di chiodo conficcato tra i nervi del piede destro: una sorta di freno di emergenza che non ero in grado di disinserire. In ogni caso avevo ben poco da scegliere, e, inoltre, sentivo nelle orecchie anche il bisbiglio, debole ma persistente, di una speranzucola.
Fu così che ingranai una gracchiante prima e iniziai il pellegrinaggio. Il motore intonava rotonde note metalliche, ma io, conoscendo bene la capacità di tenuta alla distanza dell’orchestra, lo mantenevo costantemente su un prudente “allegretto ma non troppo”. Dopo alcune centinaia di chilometri, tuttavia, il caldo e la fretta di arrivare mi trasformarono in un Von Karajan inebriato da un interminabile crescendo. I cilindrici strumenti risposero divinamente per una decina di minuti, poi crollarono, distrutti, dando l’impressione di non essere in grado di concedere bis per un bel po’. Peccato, perché non eravamo troppo distanti dal gran finale con tanto di standing ovation.
Scendendo dalla macchina fumante riconobbi i tratti inconfondibili di una tipica periferia urbana, o, più esattamente, di una periferia della periferia, habitat di esclusiva creazione e pertinenza umana. Per un mirabile processo di osmosi il sole stillava nel cranio l’asfalto, che si liquefaceva, goccia a goccia, come una enorme caramella al rabarbaro. Mossi i primi passi con molta cautela. Sembravo l’eroe di un film di fantascienza che sonda con la punta dei piedi il suolo di un pianeta sconosciuto per timore di essere risucchiato. Dovevo trovare un meccanico, o perlomeno un telefono… o il telefono di un meccanico…, qualsiasi cosa insomma, pur di evitare di evaporare del tutto, come temevo fosse già accaduto a gran parte del mio cervello.
Già, trovare qualcosa, o qualcuno. Facile a dirsi. Le finestre sbarrate, palpebre tumefatte di occhi di cemento, si rimpicciolivano ulteriormente al mio passaggio, e i palazzi scuotevano ripetutamente le enormi fronti rugose, facendo segno di no. I rari negozi di quell’enorme dormitorio non erano semplicemente chiusi: si erano mimetizzati, ricoprendosi di una membrana grigia di polvere perfettamente intonata con lo strato di calce opaca, in lenta decomposizione, che ricopriva gli edifici circostanti.
Dopo aver superato una mezza dozzina di isolati desolatamente identici, intravidi una cabina telefonica. Lì per lì feci finta di niente. Proseguii con disinvoltura, senza darle troppo peso, per timore di rompere l’incantesimo. Quando le giunsi a tiro mi catapultai all’interno. La cornetta c’era ancora, ma accanto al display, diligentemente fracassato, pulsava una flebile lucetta rossa, moribonda, anche lei. Tutt’intorno, in compenso, scritte multicolori di vario genere che avrebbero fornito materiale di ricerca ad almeno un paio di équipe di sociologhi. Uscii fuori sorridendo. Il sole mi riconobbe, e mi accolse in un tenero abbraccio di kerosene a combustione immediata. Avanzai a passo lento, con lo sguardo di un bonzo, sereno e imperturbabile.
I vari edifici continuavano a riflettersi gli uni negli altri, come specchi assurdamente fedeli ad un infelice destino, o forse, più semplicemente, ero io che continuavo a girare attorno allo stesso isolato.
Decisi di cambiare direzione. Ciò mi avrebbe consentito, nel peggiore dei casi, di dare un po’ di sollievo alla mia nuca, bersagliata senza sosta da un infuocato spiedino da barbecue.
In un anfratto seminascosto, ai margini di un’esigua lama d’ombra proiettata al suolo dall’incrocio aereo di due colossi di cemento armato, intravidi una porta spalancata. Sopra di essa una specie di insegna. “Osteria”, indicava una scritta dipinta a mano, con grafia stile seconda elementare, su un pezzo di compensato. Fuori dal locale, a testimoniare che il cartello non mentiva, una sedia di plastica e una di legno, sfondata. Tutt’intorno nessun’altra porta, finestra, veranda, terrazzo o balcone. Solo due muri smisurati di calce bianca che trasudavano pulviscolo riarso. Non c’erano alternative: o era un miraggio l’osteria, o era un’illusione ottica l’intera città. C’era un solo modo per sincerarsene, entrare. In condizioni normali avrei evitato persino di calpestare il marciapiede di un posto simile. Di normale però, quel pomeriggio, c’era ben poco; non escluso il sottoscritto.
Immobile, al centro di un pavimento di mattonelle grezze punteggiato da mucchietti di polvere lanosa frammista a segatura, presi a ruotare la testa a destra e a sinistra, alla ricerca del padrone del locale. Riuscii a contare attraverso le bocche spalancate le otturazioni di ogni singolo avventore. All’interno di un paio di dozzine di pupille scolorite dai grappini trovai solo il vuoto invece: un’attonita, inespressiva, concentratissima indifferenza. “Buon pomeriggio a tutti. Mi sapreste dire, per cortesia, dov’è il proprietario? Avrei bisogno di telefonare ad un meccanico. Ho la macchina in panne”. Solo quando il suddetto mirabile quesito era ormai volato via, quasi urlato, dal mio stomaco contratto, mi resi conto che forse, dato il luogo, era un tantino troppo formale.
Diversi attimi di silenzio assoluto, irreale, poi il sibilo, inconfondibile, di una risata soffocata. Nell’alveo delle mie vene, usurate dal calore, tracimò magma di adrenalina in fiamme. Una voce quieta, appiccicosa e molliccia come una brioche riciclata, spense l’incendio, almeno in parte.
“Sono io il padrone, signore. Ma il telefono non lo abbiamo” – bisbigliò un tipo massiccio alzandosi da una sedia e strisciando lento su un paio di sandali marroni in direzione del bancone.
“Come non lo avete?!”. Mi aggrappai all’ancora ciondolante di quegli occhi quasi-umani, deciso a non mollarla. Oppresse da una colossale riflessione, le palpebre del consolatore degli assetati si abbassarono sin quasi a serrarsi del tutto. Poi si illuminò di un’idea.
“Non serve a niente telefonare. Dove lo trova un meccanico oggi? Le faccio chiamare mio cognato, che è un mago coi motori, e tra cinque minuti riparte!”.
“La ringra…” – provai a dire, ma un urlo da Cheyenne mi bloccò.
Il figlio dell’oste, convocato d’urgenza, arrivò saltellando, facendo barcollare a più riprese il pavimento con due enormi anfibi grigioverdi.
La sua faccia, butterata e untuosa, era l’insegna più fedele ed efficacemente espressiva del locale. Con ogni probabilità era il frutto di un rapporto illegittimo ed estemporaneo tra il padre e una michetta al salame. Ne fui del tutto sicuro quando lo fissai negli occhi, due palline di grasso circondato da un’esile pellicola lievemente più scura.
“Hai capito bene allora, eh!” – gridò l’oste. “Vai a chiamare Paolo e digli di sbrigarsi! Tutto chiaro, vero?!”.
I piedi cingolati del giovane Mercurio rimasero inchiodati al suolo per lunghi istanti, così come il suo sguardo. Quindi, d’un tratto, fissò il padre e sorrise, radioso, come un filosofo che ha appena intuito il senso profondo dei più arcani misteri della metafisica. Riacquistò gradualmente una serietà professionale, e partì a razzo, come un centometrista, seguendo però gli artistici e imprevedibili arabeschi di un galoppo a zig-zag.
Mi sono messo proprio in buone mani, pensai, mentre il padre, posandomi un braccio sulle spalle, mi invitava a sedermi.
In qualità di ospite d’onore fui collocato al centro del tavolo posto di fronte al bancone. Occhi muti mi scrutavano da ogni lato. L’unica, paradossale consolazione era la tranquilla sfrontatezza di quegli sguardi. Mi squadravano fissi, senza sotterfugi, con calma e ponderazione. Avevano l’aspetto di chi è intento ad usufruire di un suo inalienabile diritto. Mi adeguai, e cominciai a scrutare a mia volta. Le rughe sui volti sembravano incise dalle pale d’acciaio del ventilatore arrugginito, stile macelleria messicana, che sussultava ogni tanto, facendo traballare la trave del soffitto a cui era stato appeso. Sotto di esso si agitavano strani esseri mitologici: centauri con sedia impagliata al posto del cavallo, cupidi di ottantacinque anni, e bizzarri quadrumani con un arto saldato ad una carta da briscola, uno ad una nazionale senza filtro, e gli altri due alle tempie, per evitare che la testa cadesse a causa della noia, o di qualcos’altro, chissà…
Una cosa era chiara: quella fauna umana era il prodotto di quel luogo. La loro esistenza era regolata dalla saracinesca del locale. Il suo abbassamento provocava l’immediato dissolvimento delle molecole che evaporavano in evanescenti sbuffi di tabacco, o si scioglievano in minuscole gocce di vino, in attesa della riapertura mattutina.
“Come ti chiami?” – sibilò uno degli ectoplasmi.
Mentre mi guardavo intorno per tentare di intuire da quale direzione fosse giunta la voce, il mio apparato uditivo fu catturato dall’esca puntuta di un “Quanti anni hai?” scagliato dal lato opposto.
Rimasi a metà strada, a bocca spalancata, prima di essere colpito alla nuca da un perentorio “Che lavoro fai?”.
Per porre fine al ping-pong decisi di risponde a uno dei tre quesiti. Scelsi il più neutro: “Beh, io… insegno lettere in una scuola”.
Il buon Dante, lieto di trovarsi “sesto tra cotanto senno” accanto a Omero, Orazio, Ovidio, e compagnia bella, sarebbe senz’altro morto di invidia, vedendo e sentendo lo straordinario consesso di cesellatori di fioriti versi e ornata prosa da cui mi trovai circondato appena ebbi terminato di specificare la mia professione. In pochi istanti fui avviluppato da un groviglio inestricabile di massime, citazioni, commenti, allusioni e rimandi ad opere letterarie reali o inventate per l’occasione.
Un nanerottolo con la pelle grigiastra, barba rada e occhi vitrei e rossicci da leprotto febbricitante, prese a camminare avanti e indietro con la schiena ricurva e le mani protese in avanti, borbottando in continuazione: “È forse il sonno della morte men duro?”.
Il verso foscoliano, pur se trascinato fuori di contesto e violentato nel senso e nella funzione, assumeva, sulle labbra sbiadite di quel bizzarro personaggio, un’intensità e una solennità tali da parere creato esclusivamente per essere pronunciato da lui. Anzi, di più: sembrava che il senso profondo e reale di quel verso emergesse dalle occhiaie abissali che solcavano il volto, assolutamente mediocre e banale, dell’omuncolo infinitamente inquietante che faceva la spola tra un tavolo e l’altro, recidendo l’aria con l’acciaio affilato di imprevedibili traiettorie.
“È forse il sonno della morte men duro?” – mugugnava con diverse modulazioni, rivolto ora a se stesso ora al primo che gli capitava a tiro.
Accompagnava immancabilmente le sue parole con un gesto minaccioso del dito, come a voler dare alla frase un senso autonomo e specifico, rendendola, in tal modo, una sorta di monito contro l’ozio e gli oziatori.
D’un tratto si bloccò e ghignò soddisfatto. Oltre i tavoli, in un angolo relativamente tranquillo, due tipi grassocci e paciosi russavano beatamente, con le braccia incrociate sulle pance che debordavano dalle livide canottiere di cotone. L’emulo del Foscolo si avvicinò a loro in modo furtivo, incurvandosi ulteriormente. Inserì la faccia nel bel mezzo dei due dormienti, a non più di cinque centimetri dalle loro placide guance, prese fiato, ed esplose il suo grido di battaglia.
I due spalancarono occhi, bocca e braccia, e balzarono in piedi. Nel loro volto si leggeva chiaro l’arduo responso: né il sonno né la morte erano duri abbastanza se paragonati al risveglio, soprattutto se la prima visione che si spalancava davanti agli occhi era quella della faccia stravolta e urlante del novello cantore dei Sepolcri.
Soddisfatto della lezione di saggezza che aveva impartito agli astanti, il funereo androide si placò, e si venne a piazzare dietro di me, con le manine artigliate alla spalliera della sedia.
Dov’è finito il figlio dell’oste? Cosa aspetta a tornare? – rimuginavo senza sosta dentro di me, mentre cercavo di far spuntare tra le labbra qualcosa che somigliasse a un sorriso.
Fecero tutti un ulteriore passo nella mia direzione. Le sedie strisciarono all’unisono sul pavimento sino a formare una doppia barriera di forma circolare.
“Viaggi da solo?” – chiese un tizio corpulento, con tono ironico. Avevo appena iniziato ad annuire che già aveva intercettato gli sguardi dei suoi amici, trasmettendo, anche con l’aiuto di alcune mossettine allusive, un inequivocabile messaggio. Nessuna espressione era mutata. Gli occhi, fissi su di me, contenevano solamente la solita sfrontata curiosità e la solita timida urgenza di comunicare qualcosa.
L’aitante umorista reagì al clamoroso fiasco della sua velenosa battuta inchiodandosi sugli angoli della bocca un vago, asprigno sorriso. Un minuto dopo dalle palpebre spalancate di quella maschera immutabile cominciarono a scendere delle gocce chiare. Pelle di cuoio stava piangendo. A dir poco ero sbalordito.
“Guardi che se è per la battuta di prima non si deve preoccupare. Non mi sono offeso” – mi affrettai a precisare, quasi fossi io a dovermi scusare. “Le assicuro che non c’è problema”.
Invece di placarsi prese a singhiozzare, sibilando alternativamente con il naso e con la bocca. Un po’ per la spossatezza, un po’ per la cacofonica rumorosità di quell’incredibile pianto, fui vinto da un incontenibile attacco di ilarità. Scoppiai a ridere senza ritegno, piegandomi in due sulla sedia quando le contrazioni dello stomaco diventavano insostenibili. A poco a poco riacquistai un contegno decente, anche se fui costretto a mordere varie altre volte un labbro inferiore non ancora del tutto domato. Venni fissato e analizzato con indicibile attenzione per lunghi istanti, come un alieno appena piombato giù da qualche astronave uscita di rotta. Non un muscolo di quelle facce tradì una emozione intelligibile.
Quindi, improvvisamente, come in risposta ad un comando convenzionale, una risata collettiva, piena e sapida, fece tremolare i vetri malfermi delle finestre e svolazzare via la membrana tetra d’aria stantia che sovrastava il tugurio.
Nelle pupille puntate su di me apparve qualcosa di nuovo, un riflesso di luce più nitida e sicura. I giocatori di carte e gli spettatori-commentatori arretrarono, riprendendo il loro posto ai tavoli, e l’usuale tono di voce quieto e pigro di chi possiede montagne di tempo, e deve scalarle tutte.
Le carte tornarono ad essere posate e sbattute, con ritmi e gesti atavici, su tutti i tavoli, tranne uno, al quale venni ufficialmente convocato io per completare il quartetto di un solenne tressette.
“Da dove vieni?”. Stavolta il tono della domanda non invitava a frugare nelle tasche alla ricerca di una pistola. Alzai la testa verso il mio interlocutore e cominciai a parlare.
“Tu sei mio figlio! Sei uguale a mio figlio!” – mi confidò uno dei miei avversari tra un fante di fiori e un cinque di quadri.
Due tavoli più in là un vecchio cane stopposo e ingiallito raggomitolato ai piedi dell’assorto spettatore di un estenuato poker veniva alternativamente allontanato con un calcio e richiamato con una carezza.
Di fronte al balcone si stava svolgendo la cerimonia di esposizione della manica ricucita e rilavata di una camicia a scacchi rossi e viola. Lo sgargiante capo di abbigliamento fu sventolato con orgoglio, a più riprese, sotto il naso del proprietario del locale. Dopo la ventesima sfilata passata sotto silenzio, senza il minimo segno di ammirazione, il possessore del cimelio iniziò a lamentarsi a voce sempre più alta, accusando l’oste di dargli bicchieri più vuoti che pieni e di non fargli mai lo scontrino. Nessuna reazione. Ognuno continuò a fare ciò che stava facendo senza battere ciglio. Gli urli diminuirono di tono e di numero fino a ripiegarsi e a appiattirsi sul ripiano del bancone, così come la fronte del contestatore.
Dal paginone patinato appeso sopra lo scaffale dei liquori, la bomba di carne del mese, nuda e abbronzata, gettava intorno occhiate altezzose. Neppure il suo sorriso grandangolare a trentotto denti riusciva a celare completamente il suo sguardo di annoiata commiserazione. La sua straripante nudità era talmente vistosa, smaccata ed eccessiva, da renderla, paradossalmente, più eterea, lontana ed intangibile di una Santa Teresa translucida di alabastro e di sospiri.
Davanti ai miei occhi, pellegrini assorti e indugianti di fronte alle imponenti cupole dorate di quel santuario di pelle levigata, comparve un bicchiere. Con gesto pronto e automatico era stato inoltrato, da un tavolo vicino, il rosso liquido consolatore. Gesto generoso e più che apprezzabile, che dovevo in qualche modo onorare. Le impronte di unto e i residui scuri appiccicati sul fondo del bicchiere rendevano l’impresa non particolarmente agevole. Volti sorridenti attendevano che mi decidessi a bere per fare un brindisi. Sorridevo a mia volta, con lo sguardo sprofondato nel contenitore appoggiato sul tavolo. Con le dita prudentemente collocate sulla parte più pulita del vetro presi a far ruotare l’amaro calice. Per sfuggire all’imbarazzo mi affidai al linguaggio dei gesti: mimai un capogiro, poi un dolore di stomaco, ma più di tutto poté l’espressione degli occhi, che non riuscii a celare. Tutti tornarono a immergersi nelle usuali contese, gridando contro il compagno, reo di aver giocato briscola al momento sbagliato, e il bicchiere rimase lì, scuro, profondo e intatto come una palude misteriosa.
D’un tratto gli invariabili rumori di fondo del locale si modificarono, fino a fondersi in un boato di soddisfazione che accompagnò l’ingresso di una giacchettina lisa sovrastata da una sigaretta. Attorno al mozzicone le labbra biascicanti di un esserino filiforme che avanzava barcollando. Ogni suo passo era una scommessa con la forza di gravità, che riusciva a vincere, evitando di cadere, solo grazie a un’abbondante dose di fortuna e determinazione.
Fu accolto come un navigatore solitario al ritorno da una traversata oceanica. Calorose quanto imprudenti pacche sulle spalle misero in pericolo il suo miracoloso equilibrio. Il rachitico Magellano non fece una piega. Puntò verso il bancone con passo strascicato, e, con la stessa energia con cui un naufrago si aggrappa ad una sospirata sponda di terraferma, si incollò al bordo del bicchiere di vino rosso che gli venne posto di fronte.
Al terzo quartino fu interrotto e scortato davanti al mio tavolo da un vociante corteo.
“Questo sì che è un grande artista… è un poeta!” – proclamarono solennemente gli araldi.
E beh… mi tocca… ormai sono in ballo – pensai – non c’è scampo, e sventolai un sorriso savio e comprensivo.
L’artista tuffò le labbra e la mente nel bicchiere che aveva trascinato con sé e scosse la testa per schernirsi, cercando di far capire a tutti che quel pomeriggio non era ispirato. Le lusinghe dei suoi ammiratori, ma soprattutto le facce serie di chi minacciava di strappargli il vino di mano, lo convinsero a cambiare idea.
Le dita ossute e giallognole si contorsero e si avvilupparono a lungo in modo innaturale attorno al bicchiere, prima che riuscisse a pronunciare una sola frase. Poi, con una voce non sua, più cupa, più penetrante, più intensa del suo traballante corpicino, iniziò a riversare nell’aria moribonda dell’osteria alchemici miscugli di parole. Non ero sicuro di comprendere esattamente ciò che stava dicendo, ma dentro di me sentivo colare, goccia a goccia, il liquido rosso che stringeva nella mano.
Tutto ciò che aveva, il poco sangue con cui era stato sbattuto giù sul mondo, oscillava al ritmo delle sue dita incerte e delle sue tremolanti rime. Attorno a lui alcuni dei suoi amici sghignazzavano rumorosamente. Altri lacrimavano in silenzio, pugnalati dalla lama quieta e micidiale di un rimpianto.
Sarà stato forse il caldo, o forse la comica disperazione che mi ispirava il sentirmi perduto per sempre tra le mura di quello stanzone, ma credo proprio di aver ingerito, per alcuni istanti, assieme al bicchiere di vino che avevo di fronte, anche qualche sorso di poesia. Vera, aspra, vivificante.
Il braccio dell’esile declamatore era ancora impegnato a ricamare nell’aria improbabili disegni, quando si vide agitarsi, alle sue spalle, una figura multicolore. Era il figlio dell’oste, di ritorno dalla sua vittoriosa missione. Paolo, il cognato meccanico, con la borsa marrone degli attrezzi nella mano e l’atteggiamento compito e professionale, era l’immagine dell’efficienza. Dava l’impressione di fare davvero miracoli con i motori: ripartire e giungere a destinazione non era più un miraggio. Senza aprire bocca mi fece segno di condurlo alla macchina. Appena il tempo di salutare tutti, più con lo sguardo che con le parole, poi mi ritrovai fuori, all’aperto.
Il sole, nitidamente spietato, era quello di sempre. Lungo il tragitto, approfittando di brevi istanti di distrazione del laconico meccanico, ogni tanto mi voltavo furtivamente all’indietro. No, l’osteria non si era mossa. Non era svanita, almeno per il momento. Era ancora là.