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La professoressa Annarita Canipaletti, solerte, infervorata, sicura di sé e della logica stringente della propria materia, insegnò a Sergio Venanzi e all’intera 2a D della Scuola Media “Vincenzo Gioberti” a suddividere le parole in due categorie: nomi concreti e nomi astratti. “Se ci si riferisce a qualcosa che risulta percepibile tramite i cinque sensi, e il vocabolo che lo esprime è dotato di plurale, abbiamo un nome concreto; in caso contrario avremo un nome astratto”. Sergio ebbe problemi: quella distinzione per lui era ambigua e sfuggente. La nebbia è percepibile? E il cielo? E la gente ha un plurale? Si intestardì, comprese che in quella difficoltà c’era sostanza, forse addirittura la chiave per la lettura e l’analisi della grammatica del mondo.

Finì per fissarsi, divenne maniaco di quell’attività tassonomica. I suoi compagni giocavano con le playstation e lui passava il tempo a guardare la vita che gli passava di fronte provando a dividere tutto in nomi astratti e nomi concreti.
“Paura” è un nome astratto – diceva a se stesso – “violenza” è un nome astratto, ma il sangue sulla faccia del mio amico Livio, preso a pugni da un branco di infami per rubargli il cellulare, è concreto. È vero, “i sangui” non esistono, c’è solo il singolare del termine sangue, ciascuno ha un suo sangue individuale.
“Barbone” è astratto; nessuno pare percepirlo, forse per evitarne l’odore e il pensiero. Barbone è schifo, e schifo è nome astratto. Quindi non c’è orrore se una mattina trovo sul marciapiede davanti al mio palazzo un barbone pestato e bruciato dai teppisti per passare il tempo. L’orrore è astratto, non ha plurale; quindi non esiste, si può accettare, forse.
“Solitudine” è un nome astratto, si diceva ancora Sergio, rinfrancato dalla certezza di aver colto nel segno. Non c’è il plurale di solitudine, sarebbe comico oltre che contraddittorio. Un attimo dopo cambiò espressione: non era del tutto convinto che la solitudine non fosse percepibile con i cinque sensi. Di certo qualcosa di concreto gli accadeva dentro ogni giorno, anche nelle aule e nei corridoi affollati, come se la mente e lo stomaco gli si strappassero e un senso di ribrezzo gli riempisse la gola come miele marcio.
Giulia era concreta. Sergio avrebbe voluto sfiorarla con le dita e sentire il profumo dei suoi capelli. Il profumo era un nome astratto, ma per quel nulla Sergio avrebbe dato tutto ciò che aveva, compreso il diario su cui aveva stilato, accanto alle cose fatte e non fatte, alle lezioni studiate e non studiate, la lista concreta dei suoi sogni.
Giulia era bella, attraente, già formata e procace. Fu preda di uno dei bulletti della 5a F. La prese con sé e le fece provare il gusto di sentirsi grande, il sesso e il fumo. Un nome astratto che la rese persa, verde come l’erba ma senza sole.
“Rabbia” è un nome astratto. Non sai da dove nasce né dove siano i suoi confini. Una mattina Sergio si rese conto che tutto il suo mondo, la compilazione infinitamente paziente del bianco e del nero, del vero e del falso, del piacere stillato goccia a goccia da mattinate lunghe come una lezione di matematica con il rischio costante di essere chiamato alla lavagna, non tornava. Non c’era più modo di trovare un punto di appoggio, una sensazione solida e carezzevole che gli desse la forza di alzarsi dal letto. Di alzarsi come un essere vivente concreto, dotato di una pluralità di sensazioni e desideri e speranze e prospettive, non come un automa destinato a ripetere azioni e gesti di plastica e metallo.
“Scuola” è un nome astratto o concreto? Certo, ci sono le pareti e i banchi e le lavagne e i vetri e i cessi e le finestre e le ringhiere, ma, a ben pensare, è più un concetto che un’entità, provò a riflettere Sergio. La scuola è ciò che ci insegnano, è il modo in cui lo fanno, è un’idea, un insieme di regole e concetti, una tradizione che prosegue da secoli, identica a se stessa anche se i tempi cambiano e cambiano i vestiti, gli zaini, i mezzi di trasporto, i capelli e le idee sopra e dentro la testa. Esistono le scuole, edifici diversi, palazzi moderni o che cadono a pezzi, ma in fondo l’attività è identica ovunque, eterna, invariabile.
C’era un solo modo per sciogliere il nodo dei nodi dando un’etichetta definitiva alla fonte di ogni dubbio, al luogo esatto in cui era nata la passione per la suddivisione del mondo in categorie contrapposte. Se si brucia un nome astratto non succede niente: la noia, la tensione, l’oppressione, se ne infischiano delle fiamme; restano intatte, inalterate. Se la scuola è un concetto astratto, resisterà, si disse Sergio mentre acquistava al distributore due taniche di benzina. In caso contrario, diventerà cenere. Ma, nel profondo, sarà felice, lei, la scuola, e con lei la professoressa Annarita Canipaletti, il suo simbolo: resterà cenere, ma sarà trionfante. Io avrò risolto l’equazione e imparato la lezione, finalmente. Avrò sciolto l’enigma, e svolto il compito per cui io, allievo, nome concreto, forse, sono chiamato ad esistere.
Sergio avrebbe davvero voluto effettuare l’esperimento sulla decrepita Scuola Gioberti. Ma il riso e la pigrizia, nomi sicuramente astratti, e di certo possenti, lo fermarono. Usò la benzina per farne dono al suo amico Carlo, diciottenne, in possesso di una patente di guida quasi concreta. Insieme fecero un giro follemente astratto sulle colline finché ci fu carburante. Da lassù tutto, perfino la scuola, aveva una dimensione diversa, come l’aria, quella luce che entrava dal parabrezza fin dentro le braccia e il cuore, come quella sensazione di non aver compreso nessuna distinzione, in fondo, nessuna categoria. Ma tanto era sabato, e con una spinta concreta e con l’aiuto di qualche generosa discesa, potevano raggiungere l’unico distributore aperto in quelle viuzze di campagna, e, mettendo insieme anche le monete da dieci centesimi, potevano riempire il serbatoio quel tanto che bastava per arrivare, forse, al più astratto e al più concreto dei nomi: il mare.