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LA SHOAH SPIEGATA AGLI STUDENTI IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA 2024 
Giocolieri, Francesco Napolitano

Possiamo chiamarlo Shoah, usando il termine ebraico che vuol dire catastrofe, oppure Olocausto come è nelle abitudini dei non ebrei, ma in realtà lo sterminio compiuto dai nazisti, nell’indifferenza e nella complicità dell’intera Europa, tra il 1941 e il 1945, ha un solo nome: genocidio, cioè un delitto contro la specie. L’enormità e l’unicità di questo crimine sono tali che ancora oggi gli storici continuano a chiedersi come sia stato possibile.
Questo genocidio viene definito da molti studiosi come una rottura della storia e della civiltà’, perché lo sterminio di 6 milioni di persone ha spezzato quel sistema di valori, quel tessuto di solidarietà che il mondo aveva faticosamente costruito nella sua storia. Qualcuno lo ha definito il cuore nero del Novecento, fatto sta che nella Shoah si è realizzato qualcosa di più profondo di qualunque altro crimine, perché è qualcosa che mette in discussione la nostra stessa natura di esseri umani.
La shoah è un buco nero che si è aperto ma non si è richiuso con la fine della seconda guerra mondiale, non è stato un terribile incubo dal quale ci siamo svegliati, perchè l’odio che rese possibili quei tragici fatti è ancora in mezzo a noi. Perché la Shoah non fu opera di pochi folli individui, Hitler e la sua cricca, ma frutto di un preciso processo storico, che vide la partecipazione di uomini normali e comuni. Fu un processo che gradualmente condusse la civiltà europea a rinnegare i principi laici e illuministici di uguaglianza e tolleranza, ma anche i valori cristiani della fratellanza e della pietà. Ad Auschwitz l’umanità è morta, ad Auschwitz l’Europa è morta. Non ci sono parole migliori per esprimere questa raggelante verità di quelle di Piotr Cywinski, direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau: “ad Auschwitz e negli altri luoghi della Shoah, la buona e vecchia Europa abbandonò tutto ciò che aveva rappresentato: fede, umanesimo, rispetto per l’individuo, il primato del diritto e della coscienza umana (…)”.
Fu la lenta e inesorabile dissoluzione dell’ethos occidentale.
Sei milioni di vittime: una cifra talmente impressionante che facciamo fatica a restituire un nome e un volto a queste persone, la cui unica colpa era quella di essere nate.
L’umanità ha imparato ben poco dalla storia perché ancora oggi tantissime tragedie, altri genocidi, anche mentre scriviamo, imperversano nel nostro pianeta, dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per tutte quelle altre guerre di cui la stampa non parla neppure più.
Molti oggi si chiedono se ha ancora senso il giorno della memoria, una ricorrenza che la Repubblica italiana ha istituzionalizzato 24 anni fa con la legge 211 del 20 luglio 2000 per ricordare le vittime della Shoah e della violenza nazifascista, ma anche per non dimenticare quella minoranza silenziosa che, rischiando la vita e senza nulla in cambio, si adoperò per salvare vite e per opporsi a questo progetto di sterminio.
E dunque, oggi ha ancora senso ricordare il 27 gennaio 1945, la data in cui l’Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz svelando al mondo l’orrore che lì dentro si era consumato?
Secondo noi sì, perché il giorno della memoria serve innanzitutto a noi, in quanto cittadini italiani, per assumerci la responsabilità di quanto accaduto, perché serva da monito per il futuro ma anche per il presente perché oggi, dopo il 7 ottobre 2023, l’antisemitismo è più forte che mai. Oggi in Italia gli studenti di religione ebraica hanno timore a frequentare le scuole e le università dove subiscono continue minacce, gli ebrei osservanti nascondono la propria identità e i propri simboli religiosi per paura di ritorsioni, le sinagoghe sono presidiate da polizia e apparati di sicurezza.
Nelle nostre piazze, negli stadi, sui social (nel dannato algoritmo delle piattaforme private che non blocca quel linguaggio e lascia che dilaghi nella rete senza controllo) e talvolta anche nelle scuole, assistiamo all’uso di simboli che rievocano l’odio razziale e di un linguaggio di violenza che si richiama agli anni del nazifascismo.
Oggi, come ha rivelato l’Osservatorio dell’antisemitismo del CDEC di Milano (Centro di documentazione ebraica contemporanea), statistiche alla mano, c’è un pericoloso antisemitismo giovanile che serpeggia tra le nuove generazioni. Oltre il 53% dei contenuti pubblicati su Reddit, Telegram, X e You Tube veicolano messaggi di odio diretti a donne, immigrati, rom, sinti, ebrei.
Che scopo ha quindi oggi ricordare Auschwitz e tutti gli altri luoghi in cui la Shoah si consumò? E’ una domanda questa che va molto al di là della questione della conoscenza della Shoah in sé, è una domanda su di noi, sulla nostra condizione, è una domanda sull’umanità, che va oltre la seconda guerra mondiale e il Terzo Reich.
Oggi siamo noi, più che le vittime, ad avere bisogno della memoria: la memoria attiva la consapevolezza e quindi la responsabilità. La memoria delle vittime e delle loro indicibili sofferenze, la memoria dei sopravvissuti e del duro fardello della testimonianza, la memoria dei carnefici e del loro implacabile odio e disprezzo per la vita altrui, la memoria dei complici e degli indifferenti pronti a girarsi dall’altra parte o ad approfittare delle disgrazie altrui, la memoria dei giusti e del loro eroismo quotidiano, silenzioso e straordinario che restituisce un barlume di fiducia e speranza nell’umanità.
La memoria è anche empatia, che ci mette dalla parte delle vittime e in opposizione ai carnefici. La memoria è anche il primo step da raggiungere quando a scuola si studia la Shoah, ma non è il solo e non è abbastanza. La memoria deve porsi al servizio della consapevolezza: la Shoah ci insegna che durante quegli anni in cui il genocidio del popolo ebraico si consumò, l’Europa perse se stessa rivelando la fragilità delle sue fondamenta: dopo la Shoah l’Europa ha bisogno di essere ripensata, quello che era prima non esiste più. E qui arriviamo al terzo step di questo trittico: la responsabilità. Una volta che la consapevolezza ha fatto il suo corso, si attiva la responsabilità, quella che deve spingere i nostri giovani a non restare in silenzio o indifferenti di fronte alle tragedie dei nostri giorni: tra trent’anni persone come noi potrebbero lasciare musei dedicati alle stragi in Ruanda, Corea, Darfur, Israele, Gaza, Ucraina, Siria o fra le onde del Mediterraneo, maledicendoci per il nostro silenzio. E oggi questo silenzio è ancora più incriminante viste le innumerevoli possibilità di accesso alle informazioni che la tecnologia ci offre.
Certo fare qualcosa per contrastare a livello globale l’orrore che ci circonda non è qualcosa che un giovane o uno studente può pensare di fare. Ma se quel senso di responsabilità si attiva allora sarà quanto basta per aiutare anche solo una persona, una sola. In fondo i giusti cosa facevano? Non pensavano di poter combattere Hitler e il nazismo armi alla mano, ma aiutavano chi avevano intorno a loro, nel loro piccolo, secondo le loro possibilità.
E quindi è responsabilità di tutta la società e della scuola in particolare favorire ogni possibile forma di memoria e consapevolezza. In che modo? Nell’unico modo di cui la scuola è capace: promuovendo il dialogo, la conoscenza, fornendo agli studenti quegli strumenti che li mettano in guardia da ogni forma di distorsione proveniente dal mondo della comunicazione social e non solo, competenze storiche, analisi critiche, verifiche dei fatti, sensibilizzazione, discussione in classe, tutti strumenti che aiutano gli studenti a sviluppare il pensiero critico.
I nostri studenti, come scrisse Hannah Arendt, devono “imparare a pensare”, ad “andare in fondo alla radice delle cose”.
Solo attraverso la cultura possiamo contrastare le forme di violenza, bisogna partire dalla memoria per mettere in moto la conoscenza quella che, se funziona, diventa coscienza e responsabilità.