Si narra, sempre in versi, secondo il modello del poema eroico o eroicomico,
la notte prima della fuga di due amici,Maspero Ferrante,
che abita in centro a Milano, e Ginetto Tallo,
che abita in periferia. L’autore si sofferma
sul passato dei due, sulla moglie pestifera di Tallo
e sulla straordinaria madre di Maspero, la “giusta donna Ada”.
I due si trovano in bicicletta alle tre di mattina ad un cascinale
dove li attendono due cavalli bai.
Due giorni prima avevano Milano.
La casa del Tallo è al piano terzo
di un grosso condominio esagonale
in via Ornato, all’angolo, a Niguarda,
via Ornato trentacinque, condominio.
Un sito polveroso, gli embrici
anneriti, gli infissi di metallo giallo scuro,
soltanto un velo grigio sulla faccia
biancastra, del tempo dei barbudos
e di Castro, che in Italia grandeggiava la Diccì.
C’era andato ad abitare nel Novanta,
nel mezzo dei mondiali dell’Italia,
appena fu sposato con la Bice.
La notte della fuga quella strada
era buia, abbandonata dai suoi santi,
come da Stazione Garibaldi
appare poi Milano al forestiero
nel vento dell’attesa dell’Expò.
Tallo nel garage la sua Bottecchia
marrone a ripararle la catena,
stava, assaporandosi il silenzio,
di notte fra le tante cianfrusaglie, le scarpe
vecchie della Bice, la casa di Barbie della Gioia,
Natale novecentonovantotto, tutto curvo
con la testa piena di pensieri,
riccia testa tonda cespugliosa,
il corpo sulla bici genuflessa,
stringeva gli occhi tondi color malva,
e rideva ogni tanto un riso brusco
come quello di contrabbandieri slavi.
La faccia oblunga e scura da uno arioso,
il sorriso aperto, mani grandi come pale
e il senso della vita nel lavoro.
Che voleva infine il Maspero da lui?
Lasciasse tutto a svelenire, prendesse
il suo cavallo baio, e lui il gemello,
e andassero fuggiaschi in riva all’Adda,
giorni, settimane, forse mesi, soli
a mezzo fra lo smeraldo denso e il grigio chiaro.
E quella notte era il folle viaggio.
Tallo, a dire il vero, menava il can
per l’aia, da giorni si negava, -Ho la caja(1)
della Bice, ho a noia la Gioia merendaia,
si diceva, -mangiatrice di girelle e tegolini-,
della Bice dissipatrice di gomme e di portiere
le sere nel parcheggio dietro al Conad.
-Bene, in fondo è la fuga che io sogno.-
Le tre di notte nel suo garage il Tallo,
a schiena china alla catena della bici
Bottecchia sua marrone a righe verdoline,
aspettava la chiamata dell’amico.
Infine il trillo, legge scuro sul display,
preme il verde e orecchia il cellulare.
-Maspero, son qui. A letto le altre due.
Come? Senza gnanca salutare? (Era
un lascito di nascita a Torcello). T’aspetto
al cascinale di Marino coi cavalli.-
E su il forcello, e la catena, e giù la pedivella,
la moltìplica, un colpo di piede al cavalletto.
Abbassa la manopola e poi esce.
Scorta la massa scura del palazzo e il tappeto
lungo della strada in là deserta, li saluta
con la mano, come andasse alpino
alla guerra di conquista lungo il Don.
Maspero s’alzò dal centro del divano
azzurro cobalto ben squadrato, dentro
al suo appartamento a tronco-corridoio,
col pavimento di marmo rosa e bianco,
i quadri di paesaggi a uguale altezza
sul muro riparato dai parati,
dai rami-camerette vedevi librerie,
foderate di volumi scuri scuri
o titoli gialli e bianchi in bel risalto,
dono del nonno rigattiere di giacenze,
fra i quali dei Promessi, il dorso a smalto,
che facevano da brolo alla sua testa, testa quadra
a portafiori, le guance livide scavate, l’iride
giallastro, la barba rada sopra il viso, un’ombra
di baffi sopra il labbro, il torso magro
e lungo, strette le spalle, gli occhi
eretti sulla figura magra, bilance acute
di un conteggio a libro mastro.
Non era alto eppure la figura
era diritta, il passo era impostato,
picchiò le mani sulle cosce, l’agra tisana
bevve dalla tazza, e mise rotolante nell’acquaio,
la sacca, le chiavi, il cellulare piatto prese,
un segno di croce al crocefisso
dell’ingresso, di sopra al portafoto della mamma,
richiuse il suo portone senza dubbi,
compose, dita lisce, il numero del Tallo
e attese i sette tratti della tromba,
poi chiuse casa, a via Bronzetti ventitré, interno sette.
Chiuse il portone con un sorriso amaro,
stette a guardare quella strada, sua dalle suore
alle corse della scuola, alle passeggiate
solitarie di ritorno dal lavoro:
i Fratelli Bronzetti, che dal nome
sempre gli avevano fatto compagnia.
Si videro al cascinale sulle tre,
Tallo a cavallo dell’alta sua Bottecchia,
Maspero sulla nera Viscontea: Marino
sellato intanto aveva i due cavalli
bai dei nuovi cavalieri, discesero
e montarono in silenzio, aggiunsero la soma
delle borse alle bisacce, solo il raggio
satellitare rimase sulle selle già distese
nella forra in giù verso la valle.
Trottarono verso Lodi sul tratturo accanto
alla statale, fra camion tonitruanti,
la mente ancora al centro di Milano.
Ma poi la sera fresca, i grilli, il manto
di stelle, silente come un volto parentale,
l’odore dei cavalli, e i calicanthus
nunzianti l’imminente primavera
più acuti all’avvicinarsi al fiume,
i botri tenebrosi e in là raggianti,
diedero calma infine ai due fuggiaschi,
maschi adulti, rivieraschi, in mezzo a boschi
oscuri, ma freschi di pensiero.
E il fresco venne con la libertà,
lo strappo tanto atteso dai precordi, che brusco
commuove e rende nitido il presente.
-Fa minga il cucù, pirlot!- Maspero
disse dopo un poco a Sansovino,
fermatosi di botto lungo il ciglio
del tratturo, calciante a Tracagnota,
il baio del Tallo accanto, nitrente anch’esso
per capriccio gemellare. Entrambi gli stivali
contro i fianchi e un tiro al morso
e il cavallo prese andare, seguito dal gemello,
calmi i due sul nastro della strada, le natiche
lucenti a ritmo lento, sui solidi garretti
contadini, il ciuffo nero, pendulo e oscillante
delle code spesse e fonde d’animale
altero e un po’ caparbio, collinare.
I cavalli bai dei due amici, che ricordano Don Chisciotte
e Sancho Panza, avanzano nella notte andando finalmente
verso la tanto agognata pace del cuore, che spesso
non è la solidità della ragione.
- Significa “noia opprimente” in dialetto emiliano (modenese N.d.A.)