Quanto sarà grande un metro cubo di amianto? Quanto peserebbe? E se vedessimo in un microscopio come apparirebbe ai nostri occhi un suo centimetro quadrato? Perché di un prodotto ‘rivoluzionario’ come l’Eternit – un nome che evocava l’infinito –, utilizzato in tutto il mondo, nessuno sapeva della sua nocività per la salute umana? Della pericolosità dell’amianto, a dire il vero, si sapeva già nel 1831 quando un provvedimento regio del Regno Sabaudo ne vietò l’utilizzo nelle aziende tessili piemontesi, laddove si erano registrate diffuse tubercolosi polmonari tra le lavoratrici. Ma bisogna arrivare agli inizi degli anni Novanta del secolo successivo per avere dal Parlamento la prima legge che mette al bando queste sostanze minerali altamente patogene. E solo nel primo decennio del nuovo Millennio, sempre nella stessa città di Torino, si certificherà una certa consapevolezza anche in ambito giuridico e nella società civile. Infatti con lo storico processo ‘Eternit’ si stabilisce che in alcuni stabilimenti sono deceduti un numero impressionante di operai e operaie per patologie asbesto correlate, in particolare di mesotelioma, una terribile patologia cancerogena causata dalle fibre polverizzate di amianto. Quella che raccontiamo in queste pagine è una storia che si snoda nel contesto politico, culturale e civile della metà degli anni Ottanta del secolo scorso che ha pervaso l’intero Mezzogiorno e che non ha risparmiato nemmeno l’Irpinia di Francesco De Sanctis, Guido Dorso e Giustino Fortunato. Erano i tempi in cui questa nobile terra si trovava ancora sotto le macerie di un terremoto morale e materiale e che aveva una gran voglia di riscatto. Purtroppo nei successivi anni della ricostruzione si ripiegò su se stessa, tra atavici sentimenti di servitù e nuovo egoismo proprietario, che sotto l’egida di un sistema di potere fortemente condizionante faceva fatica a vedere. Diciamo questo per far capire fino in fondo la sconcertante vicenda dell’Isochimica di Avellino, per come sia potuta nascere e arrivare con le sue ombre e scie di morte fino ai giorni nostri. Questo drammatico evento è qui raccontato da ex operai di una fabbrica che doveva essere il luogo del loro futuro, mentre si trasformava sempre più in un incubo e in una atroce disillusione. Abbiamo scelto di ritrovarci a Tufo, terra di antichi e contrastanti sapori, come quello acre dello zolfo e quello soave del vino, nel locale Per le vie del Greco, dove ci fanno da sfondo i pannelli fotografici in chiaroscuro che raffigurano la dura esperienza dei minatori. Una scenografia calzante per questo tipo di incontro.
«Mi chiamo Nicola Abrate, ho 61 anni, vivo a Monteforte Irpino e ho tre figli. Sono andato in pensione anticipatamente perché affetto da ‘asbesto correlata’. Si tratta di un restringimento delle vie polmonari a causa delle fibre di amianto che ho inalato lavorando alla ex Isochmica di Pianodardine, l’area industriale della città di Avellino. Entrai in questa fabbrica, che si occupava della scoibentazione dell’amianto presente nelle carrozze ferroviarie del tempo, nel 1983».
«Io sono Guido Iandolo, ho 59 anni, sposato, con un figlio, diplomato in ragioneria. Anch’io ex operaio Isochimica».
Nicola: «Entrai in questa fabbrica, che si trovava a pochi passi dalla stazione ferroviaria di Avellino, grazie a delle amicizie di mio padre. Ero poco più che ventenne e ricordo che quel giorno mi presentai insieme a molti altri giovani, soprattutto della città capoluogo e dei comuni circostanti. Fu in quell’occasione che conobbi il titolare, Elio Graziano, un ex impiegato delle Ferrovie dello Stato che aveva pensato bene di mettersi in proprio per fornire prodotti igienico-sanitari a quell’Ente. Presenziava alle selezioni insieme al responsabile impiantistico dell’azienda, l’ingegnere Vincenzo Izzo. Mi dissero di mettermi in fila e di attendere il mio turno nel piazzale antistante i due capannoni, che, tra l’altro, erano ancora incompleti. Io ero reduce dal servizio militare e mi colpì subito la somiglianza con quelle procedure di addestramento, in particolare quando ci chiamavano uno per volta seguendo l’ordine di età e noi dovevamo rispondere facendo un passo avanti. In effetti c’era un motivo in quanto il criterio di selezione era semplicemente quello di favorire i più giovani i quali erano considerati quelli maggiormente predisposti al tipo di lavoro che avrebbero dovuto effettuare. Non sostenemmo alcun test attitudinale se non il sottostare allo sguardo arcigno che Graziano riservava a ogni ragazzo da selezionare. Così, essendo di sana e robusta costituzione, mi scelse e mi fece accompagnare direttamente, senza indossare alcun indumento da lavoro, nel capannone che era ancora a cielo aperto, non essendo completata la copertura con i pannelli di volta».
Guido: «Sono arrivato all’azienda tramite amici verso il 1984 quando ero anch’io poco più che ventenne. Non sostenni alcun colloquio iniziando a lavorare subito dopo che ci ebbero spiegato velocemente quello che dovevamo fare».
Nicola: «Mio padre mi aveva assicurato che si trattava di un’azienda in qualche modo collegata alle Ferrovie dello Stato, il che, ovviamente, non era, in quanto completamente privata e di esclusiva proprietà di Elio Graziano. La prima impressione che ebbi in qualche modo corrispondeva a questa convinzione, in quanto appena entrato vidi sui binari dell’adiacente stazione ferroviaria queste lunghe colonne di carrozze sistemate sui binari. Si tenga presente che quello era un periodo critico per la nostra provincia, dove ancora si vedevano le macerie del recente terremoto del 1980, ma soprattutto si percepivano gli effetti di una crisi che aveva provocato una notevole disoccupazione giovanile, per cui il miraggio dell’azienda che opera per il settore pubblico e di un lavoro sicuro e duraturo fece nascere in noi giovani molte speranze o, se volete, illusioni».
Guido: «Io, invece, sapevo che era un’azienda che lavorava per le Ferrovie dello Stato e che si trattava in effetti di un’officina manutentiva. Ma dopo pochi giorni mi trovai a raschiare a mani nude e con pochi rudimentali attrezzi l’amianto presente nelle carrozze. Al momento non avevamo cognizione della pericolosità del trattamento dell’asbesto fibroso».
Guido e Nicola sono giovani, hanno ancora una vita davanti e come il resto dei nuovi colleghi non prestano molta attenzione alle caratteristiche della lavorazione che sosterranno. Sono scolarizzati, ma non disdegnano un lavoro di fatica perché sanno bene che se non vogliono lasciare la loro terra è meglio che si prenda il primo treno che passa, fosse anche uno da scoimbentare su un binario morto di una stazione.
Nicola: «Neanch’io avevo conoscenza della pericolosità del’amianto, ma dopo poco tempo mi accorsi che qualcosa non quadrava. Infatti svolsi la mia prima giornata lavorativa con gli stessi abiti con cui mi ero presentato alla selezione. Quando feci ritorno a casa mio padre mi vide tutto sporco e impolverato sui vestiti e mi chiese “Ma che roba è sta cosa che tieni addosso?”, tanto che la mattina successiva mi intimò di non tornare a lavorare. Non avevamo cappelli protettivi, né guanti, tantomeno mascherine, ma solo delle pezze di stoffa che dovevamo mettere sui vestiti per ripararci, si fa per dire, dal pulviscolo che, copioso, volava nell’ambiente e ci cadeva addosso. Solo successivamente ci munirono di tute fatte di ‘TNT’ (tessuto non tessuto) ricavate dal riciclaggio delle lenzuola utilizzate nei vagoni letti ferroviari e che erano prodotte in altre aziende sempre di proprietà di Elio Graziano. Ci munirono di un raschietto e di una spazzola di ferro per far cadere l’amianto dalle carrozze. Quindi, come si può dedurre, un lavoro tutto sommato semplice e molto manuale. Un lavoro che veniva svolto di solito da sei o sette giovani per ogni carrozza per otto ore di fila, e a volte anche di più, ogni giorno».
Guido: «Il mio primo giorno lo iniziai avendo in dotazione una maschera, del tipo antigas, con apporto di filtrini, i quali, lo abbiamo scoperto dopo, erano praticamente inutili, cioè non adatti a trattenere le polveri sottili dell’amianto. Era la varietà più pericolosa del minerale, il tipo crocidolite, le cui fibre aghiformi erano in grado di penetrare a fondo nei tessuti del nostro organismo, dove sono rimaste per tutta la vita, provocando alterazioni irreversibili».
Mio padre, come il mio bisnonno e mio nonno, era minatore e mi raccontava che, quando ancora ragazzo, scese nelle viscere della miniera di zolfo, la prima cosa che il capomastro gli spiegò ripetutamente era come si svolgeva quel lavoro, cosa avrebbe dovuto fare e soprattutto i diversi rischi che avrebbe potuto incontrare. A più di quarant’anni di distanza, quando la coscienza della tutela della salute dei lavoratori dovrebbe essere stata definitivamente acquisita da un Paese che si vanta di essere tra le prime sette potenze industriali del pianeta, troviamo dei giovani ignari del reale rischio a cui andranno incontro, i quali vengono gabellati in modo cinico e beffardo dai responsabili della fabbrica che li sta accogliendo nel suo ventre mortale.
Nicola: «Dopo qualche mese mi accorsi che l’aria all’interno dei capannoni era sempre più irrespirabile e le polveri aumentavano sempre di più in quanto non c’era alcuna forma di areazione meccanica, tanto che per il ricambio si ricorreva ai flussi naturali di vento che scorrevano tra i due portoni opposti di accesso. Ma questa fuoriuscita di pulviscolo contaminato andava a spargersi per le zone circostanti dove c’erano diversi palazzi abitati, una scuola e altre strutture pubbliche. Così iniziammo a chiedere spiegazioni a qualche responsabile ma ci veniva detto di stare tranquilli “perché non c’era nulla di nocivo”. Noi insistevamo chiedendo come mai si toglieva questo amianto dalle carrozze, perché forse pericoloso per la salute o l’incolumità delle persone? Ma loro ci tranquillizzavano dicendo che “veniva eliminato per rendere più tecnologiche le vetture ferroviarie sostituendolo con una sostanza innovativa”. Ma a distanza di tempo avevamo conferma che le cose non andavano per niente bene perché la polvere inquinante aumentava sempre di più e la si avvertiva sempre perché su tutto il corpo. Una sera, mentre guadagnavamo l’uscita alla fine del turno di lavoro, davanti ai cancelli trovammo un signore che ci attendeva e che ci venne incontro e si presentò spontaneamente a noi. Era il professore Giovanni Maraia di Ariano Irpino. All’epoca era segretario provinciale di Democrazia Proletaria e già noto per le sue battaglie ambientaliste e che voleva consegnarci dei documenti che provenivano dalle Ferrovie dello Stato, i quali riportavano dei dati relativi a diversi lavoratori del comparto che si erano ammalati, avendo trattato l’amianto e che avevano scatenato le prime lotte sindacali in merito a questa problematica».
Guido: «Le stesse domande iniziai a pormele anch’io in quanto non mi spiegavo, perché occorreva eliminare questo amianto presente nelle carrozze dei treni e, purtroppo, essendo ancora ignari della problematica e il fatto che a quei tempi non era facile procurarsi informazioni precise, come oggi avviene più agevolmente, anche grazie a Internet, non riuscimmo ad averne immediata conoscenza. Così questi dubbi iniziarono a circolare tra gli operai della fabbrica e dopo un po’ molti erano quelli che si ponevano queste domande in quanto comunque persisteva una situazione di non chiarezza soprattutto per le reticenze della Direzione aziendale. Fu proprio Giovanni Maraia che ci fece aprire gli occhi su quello che effettivamente era l’amianto e a cosa ci avrebbe portato il continuare la nostra esposizione».
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Foto di Alessandro Di Blasi.
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