È estremamente interessante il rapporto che la contemporaneità è riuscita ad elaborare con il tempo; un rapporto che, mai come ora, si regge su un dissidio quasi insormontabile. Il nostro quotidiano, infatti, è scandito, vincolato e vissuto nell’assillo del tempo, un assillo che ha perso tutta la sua perentorietà ontologica per divenire schematismo e scheletricità nel gorgo dell’agire. Quando nell’antichità, infatti, si faceva riferimento al tempo (vedi Kronos o Kairos), il suo essere reso sostanziale – attraverso anche e soprattutto la valorizzazione mitologica – rappresentava una forma di inderogabilità, per certi verti di indomabilità. Quindi la resa temporale macroscopica era privata della scomposizione unitaria, per divenire una macchinazione enorme; tanto enorme da non poter essere ridotta nell’indotto pratico di una misurazione complessiva, ma da divenire un fondamentale della stessa ontologia dell’essere umano. Andando avanti nella storia del pensiero, è la stessa misurazione spazio – temporale a restituire al tempo quel fragore e quella diligenza totalizzante, capace di costruire all’uomo una mappatura complessiva del suo essere. Il grande problema, ovviamente, era l’assenza di uno spicciolo: se trova largo impiego e spazio il Tempo (quindi il tempo nella sua accezione macromolecolare, addirittura ascrivibile alla stessa storia della vita nella sua pienezza), quale spazio vi sarà per un tempo che sia frammentato ed induttivo? Quale spazio vi sarà per la misurazione del tempo in una logica strettamente vivibile?
Certamente si potrà ribattere che è nel diem che la cultura classica ha sempre fondato il suo modo interpretativo dell’esistenza; ma questo termine di vivibilità non si innesta nella quantificazione, quanto nella qualificazione. Il diem è modo e prospettiva di una non numerabilità: quando si considerava l’attimo – per intenderci – non si faceva riferimento alla sua misurazione e, quindi, alla sua estensione; ma si rimarcava, piuttosto, lo sviluppo di una costruzione qualificante del tempo. Per l’antichità era essenziale muoversi in attimi predicanti e non in attimi predicati: era l’attimo a generare vita e non l’attimo ad essere generato nella vita di un computo. Questo percorso – per certi versi molto più sano – rappresenta la schematizzazione indelebile di un’adesione ad una legge universale: nell’immanenza dell’attimo da dover identificare, infatti, si scrive il cammino di ciò che inderogabilmente è. Da questo processo, chiaramente, si nega anche la semplicità pratica del tempo. Esso, infatti, diviene operazione e sfondo dell’uomo; non, in una visione strettamente pratica, successione di azioni compiute da ciascun agente umano e, per questo, definibili anzitutto nel loro risvolto e nella loro coordinata strettamente ordinativa (rispetto ad altre azioni e rispetto allo spazio). L’avvento della fisica ha addotto un percorso semplificante molto importante, dando alla luce una diversa prospettiva rispetto al senso ed al significato del tempo: esiste un Tempo, infatti, strettamente esistenziale – inteso nella sua qualificazione – ed un tempo posto come ragguardo e modo attraverso il quale l’uomo si possa identificare nel totale della vita propria e della storia – inteso come misurazione temporale. È questo il principio che discende dalla capacità di sminuzzare in anni, mesi, giorni, minuti, secondi, millesimi: capire come l’uomo si collochi non solo rispetto all’esistenza, ma rispetto ad un’evoluzione di se stesso e ad un’evoluzione della storia.
Da questo sforzo prettamente pratico (non materico – perché anche il Tempo possedeva la sua formazione sostanziale) deriva un influsso che ha ridotto vertiginosamente il modo dialogante dell’uomo con il tempo e con il suo tempo. L’uomo, misurandolo (dunque identificandolo, perché univoco: il 29 marzo 2024, ore 15:15:34 è diverso da ogni altro tempo), è stato in grado di rendere il tempo non una macchinazione astrale o, per certi versi, esoterica; lo ha essoterizzato, lo ha chiamato per nome ed ha iniziato a possederlo. Almeno dalle premesse, allora, questa resa pratica non rappresenta un tentativo vano; ma, anzi, è una forma di arricchimento e di potenza enorme. Una potenza che consente all’uomo, nella sua semplicità pratica, di assumere dominio anzitutto su se stesso, conoscendo perfettamente le coordinate in cui si colloca ed in cui è indentificato univocamente nella storia. Il problema di ogni premessa, tuttavia, è l’incompatibilità rispetto alla riuscita, cioè l’incongruenza nata tra i buoni propositi – quantomeno teorici e, inizialmente pratici – ed il risvolto disastroso che si è attualizzato come conseguenza.
Questa frammentazione molecolare del tempo ha, purtroppo, assunto sempre più il sopravvento sull’uomo, rendendo la sua una forza depotenziata, creando un marchingegno vertiginoso nel quale non esiste deroga, non si ritrova pace personale. Perché, ormai, a farla da padrone è la frenesia misurativa, la sovrapposizione identitaria che genera vuoti, vuoti incolmabili. Ci troviamo, per capirci, entro l’estremo opposto dell’antichità: mentre la cultura classica unificava ed ontologizzava per qualificare, la cultura contemporanea frammenta e rimuove identità per quantificare. Una simile riflessione – mi addolora profondamente – non nasce da un percorso astrattivo o estraniato dal mondo, ma può essere qualificata entro la mera e semplice esemplarità quotidiana: si è iperconnesi (non si pensi subito ai social) e questa iperconnesione conduce ad un’ansia frenetica, al voler correre continuamente. Non è necessaria né un’indagine filosofica, né tantomeno un report sociologico per chiarire che la nostra condizione esistenziale sia ampiamente e continuamente senza fiato; non è necessario uno studio accademico per dimostrare che le tempistiche si siano non semplicemente ridotte, ma iperaccumulate; non è necessaria un’analisi o un’elucubrazione per dimostrare che il centro nevralgico del nostro esistere è rappresentato dalla mancanza di fiato. Questa tendenza – a mio parere, una tendenza rischiosissima – non rappresenta un fattore negazionista della contemporaneità, ma la consapevolezza di un assoluto della quantità. La quantità di azioni contemporanee, l’esigenza di sovraccaricarsi psicologicamente, l’indursi alla materia del calcolo millesimale hanno condotto ad una de-identificazione dell’attimo, ad un asservimento al suo semplice essere predicato. È la non gestione del possesso del tempo, la volontà di scrivere il tempo entro una semplice ed efferata matrice produttiva risultante, dimenticando l’esistenza di tempi di refrattarietà. Tale scenario rappresenta un rischio tanto tremendo da generare orrore: ciò che ci si attende dal tempo, infatti, è la sua possibilità di essere conciliato in una spirale in cui ogni istante debba essere più volte smezzato per arrivare a più effetti, a più risultati, a più coordinate. Ogni istante deve essere garanzia di un azione pratica precisa e, se possibile, anche di più azioni contemporaneamente. Si giunge, allora, entro un’inversione sintattica, per cui il tempo non è una cortina divisoria, ma il mezzo da essere smantellato per arrivare a qualcosa che sia il quanto più possibile. In questo, certamente, influisce la nevrosi alla produzione massimamente esasperata di matrice capitalista; ma tale dato storico non basta per identificare queste che sono aberrazioni temporali. Ogni identità di attimo che viene frantumata per dare inizio a più azioni, a più cicli, a più forme pratiche rappresenta, purtroppo, l’emblema inderogabile di un’aberrazione, di un percorso velenoso che esaspera e deprime l’azione dell’uomo al mondo. L’esigenza ad essere iperconnessi (ossia visceralmente legati a più spazi ed a più tempi nello stesso momento) è il sale di un ritorno alle origini, seppur attraverso il percorso inverso. Se prima il Kronos divorava i suoi figli perché immanente, perché incapace di essere sminuzzato ed identificato dall’uomo, perché protratto solo in una logica mostruosa ed infanticida; ora il Kronos rinnova la sua mostruosità ferendo i respiri, rendendosi iper-molecolare, accelerando inesorabilmente il suo regime di vivibilità. Anche adesso, purtroppo, il Tempo genera morte, perché si costruisce nell’insaziabile incapacità dell’uomo di volontà di potenza, nella tragedia sempre più galoppante di una modificazione gravissima del modo con cui l’uomo si colloca nella sua storia e nel modo con cui l’uomo si identifica precisamente in una storia. Questo baluardo non lascia deroghe, modifica logorando, procrea avvelenando… e l’uomo tace.
Per chiarire questa involuzione, che possiede una drammaticità fisiologica, possiamo far riferimento ad una formula:
s = v x t
Questa formula, assai nota perché rappresentativa di uno dei rudimenti essenziale della fisica, rappresenta la formula del moto rettilineo uniforme ed è traducibile in un più comprensibile: spazio = velocità “per” tempo. La scelta del moto rettilineo uniforme non è assolutamente casuale, ma ci si attende che sia il modo più naturale attraverso il quale si possa intendere il tempo al mondo. Il moto rettilineo uniforme è, infatti, andamento esistenziale della vita: esso si articola in segmentazione (attimi) distinti ed identificabili (perché costituiti di uno specifico spazio, di uno specifico tempo e di una specifica velocità), ma descrive un andamento che è lineare e che rappresenta la totalità del movimento; ossia il passaggio da una posizione A ad una posizione B, la cui distanza rappresenta l’intera tratta da percorrere. Contestualizzata in una matrice strettamente esistenziale (biologica qualificata), tale formula assume delle caratteristiche similari; quindi, pur attraverso altri interpreti, è comunque ascrivibile a quella peculiare modalità di fondo. L’estensione della vita di ciascun individuo, in soldoni, altro non è che la tratta o la distanza che intercorre tra i due principi che lo compongono: la nascita e la morte. L’intera traslazione (quindi il passaggio tra nascita e morte) è lineare, pur essendo frammentato in singoli attimi che influiscono sul risultato totale, che è il compendio del proprio esistere. In questa frontiera, ovviamente, la rimodulazione continua di questa formula, a seconda di ciascun attimo, subisce un’inclinazione sempre maggiore. Che cosa significa? Significa che la formula del modo di vivere è calata in ogni singolo attimo che, considerato dall’uomo come perentorio, diviene la struttura unitaria che poi, attraverso sommatoria, induce al raggiungimento del percorso completo: la propria vita. Ci adoperiamo, allora, nella traduzione di spazio, velocità e tempo in unità concilianti ad un’analitica dell’esistenza.
Lo spazio diviene, allora, il compimento di un’azione (dunque la sua identificazione), la velocità il numero di azioni da compiere, il tempo diviene il numero di attimi impiegati per portare a compimento ciascun azione e, quindi, farla riconoscere. In una fisiologia naturale, essendo il rapporto unitario, ad un unico attimo corrisponde un’unica azione ed un unico compimento di azione (quindi un’unica identificazione). Questo implica, ovviamente, conciliare in maniera perfetta sia la resa ontologica del tempo (il farsi possedere dal Tempo), sia la resa misurata del tempo (il possedere il Tempo). Questo risultato giunge, semplicemente, dalla possibilità di avere tempo; ossia dall’attitudine a godere dell’interezza di un attimo e a farla fruttificare nella maniera più lineare e limpida: solo per se stessa. Tale possibilità viene traviata, purtroppo, dall’iperconnesione, che nasce come modulazione distinta della formula precedentemente individuata; ma che si pone soprattutto come distruzione del senso stesso dell’identità. Si viene a circoscrivere, dunque, un palese sviluppo di aberrazioni; dunque di inclinazioni alla non identità, alla falsità di un’identità specifica ed all’intendimento (in virtù dell’abitudine) di una fluidità mostruosa ed ingiustificata. Tale risultato è sempre deducibile dalla formula s = v x t.
Ad una velocità doppia corrisponde un tempo identico (perché identica è la fisiologia che scandisce il modo di relazionarsi dell’uomo al fenomeno temporale). In questa frontiera, quindi, risulta uno spazio doppio: maturata, infatti, una velocità doppia a fronte di un tempo inderogabilmente inalterato, l’unico risultato possibile è uno spazio doppio. Come si traduce questo, alla luce di una fisiologia delle iperconnesioni. Trattandosi di un attimo solo – che è sempre ed inderogabilmente tale, le azioni compiute raddoppiano (perché è doppia la velocità), per cui la totalità delle azioni compiute ed identificate risulta essere anch’essa doppia, essendo nella formula lo spazio doppio. Questa inerzia risultante causa la disgregazione della qualificazione di ogni singola azione, ricorrendo ad una fisiologia unitaria che dia, però, più forme di attitudine e, dunque, più segni di indeterminazione. In scenari pratici, quindi, possiamo concludere che l’uomo, posseduto da questa smania di smistare ed accumulare risultanti, ha perso il gusto della singolarità, ha perso la capacità analitica di non soprassedere mai al compimento ed alla considerazione di un singolo atto; per prestarsi ad un giogo vertiginoso, in cui nulla è gustato e qualificato, nulla ha una solida identità. In questo sta l’aberrazione: annientare la rilevanza di ogni atto compiuto (quindi la sua diversità), per trasformarlo nello scompartimento di una treno eternamente ed atavicamente fermo nel centro dei binari.