80 anni di silenzi e omissioni sul più grande incidente ferroviario europeo che pochi ricordano: la tragedia di Balvano
Ero da poco giunto a Salerno dopo un estenuante viaggio iniziato al di là della Linea Gustav, prima del suo sfondamento da parte delle truppe alleate. Un lungo viaggio, pieno di rischi e pericoli, fatto di rari, fortunosi e soprattutto pericolosi, passaggi in camion, carretti o muli e di tanti chilometri percorsi a piedi, la maggior parte dei quali attraversando tortuose mulattiere e antichi tratturi, per evitare le strade più trafficate, dove sarebbe stato più facile incontrare fascisti e nazisti. Mi sentivo un po’ come un criminale braccato e costretto a scappare e a nascondersi: eppure non avevo fatto nulla di male, stavo solo cercando di ritornare finalmente a casa.
Militare in Toscana di ritorno, per mia fortuna giusto in tempo, dal fronte balcanico, ero tra i tanti che rimasero a dir poco sorpresi, l’8 settembre del 1943, dall’annuncio, per la verità alquanto sibillino, del Maresciallo d’Italia e Capo del Governo, Sua Eccellenza Pietro Badoglio.
Ci fermammo tutti all’improvviso, la camerata divenne silenziosa come durante un bombardamento, le orecchie e gli occhi, colmi di meraviglia e speranza, rivolti non verso l’alto, da dove piovevano di solito le bombe, ma verso quell’apparecchio di legno a transistor, chiamata radio, che aveva interrotto i programmi soliti della sera, per un annuncio straordinario. Tutti rimasero attenti ad ascoltare un messaggio del nuovo capo di stato che aveva sostituito il Cavaliere Benito Mussolini, dopo la riunione del Gran Consiglio del Fascismo, che consentì, il 25 luglio precedente, di mettere alla porta il fondatore del fascismo e di farlo arrestare su iniziativa di Sua Maestà Re e Imperatore d’Italia (di un impero che non c’era più) Vittorio Emanuele III.
«Zitti un po’ tutti…», esclamò Italo, commilitone romano, che con le braccia e mani tese, quasi come un direttore d’orchestra, cercava di attirare l’attenzione di tutti.
A fendere il silenzio, che piano piano contagiò tutti, fu la voce calma, ma poco entusiasta e convinta, del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio che annunciava:
«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.»
«Ma li mortacci sua! A raga’, ma allora la guerra è finita! È finita!», urlò Italo.
La camerata diventò all’improvviso uno stadio di calcio, tutti esultavano di gioia come se ci fosse stato un goal a quell’annuncio, tutti si abbracciavano, c’era chi piangeva, chi estraeva dal taschino la foto della mamma o della moglie e la baciava, oppure chi si rivolgeva all’immaginetta del santo al quale si era affidato per tornare salvo a casa, chi iniziava a pregare per ringraziare il Signore del miracolo ricevuto, chi invece pensava già come fare le valigie al più presto e andare via.
Il più felice di tutti era Vittorio, un caporale vicentino che era diventato papà da pochi giorni e sperava di poter così presto abbracciare quel bimbo che non aveva ancora conosciuto, come anche Francesco Saverio, soldato-contadino calabrese che, finalmente, avrebbe potuto fare la conoscenza della sua bambina, nata da quasi un anno e non ancora incontrata, a causa della crisi dell’esercito italiano e la lunga ritirata dall’Africa, acuita dallo sbarco a Salerno degli Alleati. Il povero cristo, per un motivo o per un altro, non era mai riuscito ad andare in licenza: sembrava che gli alleati ce l’avessero proprio con lui!
«Questa volta nemmeno il Generale Patton in persona m’impedirà di ritornare a casa ad abbracciare la mia bambina…»: purtroppo non fu così, la “sua” guerra sarebbe durata ancora a lungo. Infatti, nel tentativo di ritornare in Calabria, fu fermato dopo pochi giorni da una colonna nazista, i tedeschi capirono subito che si trattava di un soldato italiano sbandato che non aveva aderito al regime collaborazionista del redivivo Mussolini. Francesco Saverio con coraggio rifiutò nuovamente di continuare la guerra nelle fila nazi-fasciste e finì prigioniero in Austria, dove morì di stenti circa un anno dopo, senza la possibilità di conoscere la sua bimba, come accadde a molti altri soldati italiani, ritenuti traditori dai nazi-fascisti e che furono chiamati I.M.I. (Internati Militari Italiani – Italienische Militärinternierte in tedesco), un ibrido che non garantiva loro nessuna delle tutele previste per i prigionieri militari comuni, anzi avrebbero avuto un trattamento “speciale”, leggermente migliore di quello riservato a ebrei, zingari e omosessuali.
L’euforia generale fu spenta dalla voce del capitano Rossini, una brava persona, alto, con i capelli rossicci come il suo cognome, un varesino molto preciso e puntiglioso, soldato per caso, che voleva sempre vederci chiaro in ogni cosa e che urlò furioso.
«Silenzio disgraziati, fatemi sentire se dice altro!»
Tutti zittirono, ma dalla radio presente nella camerata non venne più fuori la voce di Badoglio.
Istintivamente gli sguardi interlocutori di tutti incrociarono il volto del capitano.
«Porca miseria, che mi festeggiate? Noi non abbiamo avuto nessuna indicazione su cosa fare…che vuol dire… “conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”? Che dobbiamo fare noi? Chi dovrebbe attaccarci? Per logica solo i tedeschi potrebbero avercela con noi, visto che con gli Alleati abbiamo siglato un armistizio e loro no, ma che significa? Boia di un cane, che dobbiamo fare? Non vi muovete da qui vado a vedere se ci sono direttive». Il capitano era forse l’unico ad aver capito che le cose non erano così semplici come poteva sembrare a prima vista.
Purtroppo ordini chiari e perentori non arrivarono mai e noi ci trovammo senza indicazioni, senza sapere cosa fare e in balia dei tedeschi, loro sapevano bene cosa fare, ormai padroni di tutto.
Per la verità esisteva un piano emanato il 2 settembre 1943, denominato Memoria Op (ossia ordine pubblico) 44, che conteneva alcune direttive da attuare, in caso di armistizio, nei confronti degli ex alleati teutonici. Le dodici copie di tale piano (per la verità molto generico, tardivo e, probabilmente, irrealizzabile) furono indirizzate ai soli comandi e rimasero in pratica nel cassetto.
Il capitano, il giorno dopo, venne da noi e, con grande sincerità, ci disse che non c’era molto da fare lì e che la caserma, con tutto il resto, era destinata ormai a passare sotto il comando dei tedeschi e dei fascisti: in pratica, chi lo avesse voluto, poteva “ufficiosamente” andare via e tentare di ritornare a casa. Era in pratica un “liberi tutti”, ma molto meno semplice di quanto si potesse immaginare.
Molti scelsero questa strada, non tanto per vigliaccheria, anzi, ma proprio per non dover ricominciare una nuova guerra, già persa in partenza, con la probabilità di finire ammazzati per uno stato fantoccio asservito ai nazisti.
Anche io decisi di andare via, non ero stato per niente un convinto fascista fino ad allora, ma come molti altri lo ero solo sulla carta per necessità e quieto vivere. Pensai di tornare a casa, magari poi avrei deciso cosa fare, ma la strada da percorrere era piuttosto complicata e pericolosa, dovendo oltrepassare le linee difensive tedesche e il fronte, e dovendo inoltre arrivare fino a Potenza.
La mia avventura iniziò appena fuori dalla caserma, gettati via gli abiti militari, intrapresi la lunga marcia verso casa che durò diverse settimane, con lunghe soste forzate per evitare ronde nazi-fasciste e bombardamenti alleati.
Finalmente, in un modo o nell’altro, giunsi a Napoli. La città era molto diversa da quella visitata qualche anno prima. Macerie ovunque, miseria, fame, disperazione, numerosi sbandati e gli alleati in grave difficoltà nel cercare di sfamare la popolazione e di approvvigionare, almeno dei beni di prima necessità, la prima città d’Europa che si era ribellata da sola al giogo nazista.
Il mio obiettivo, essendo riuscito ad arrivare oltre la linea del fronte, che era a circa cento chilometri più a nord di me, era quello di tornare a casa definitivamente, ma questa volta, possibilmente, in treno. Tra l’altro quello era l’unico modo per andare da Napoli verso est, perché gli altri mezzi erano sequestrati o al servizio delle truppe alleate e del Governo Militare Alleato.
Anche se la guerra, quella con i morti, le mitragliate, i bombardamenti sembrava ormai lontana (un ultimo velenoso “colpo di coda” dei tedeschi si abbatterà su Napoli la notte tra il 14 e 15 marzo del 1944, con un violento bombardamento che causò altri trecento morti circa), viaggiare con i treni non era comunque per niente facile. La tratta che interessava a me per tornare a casa prevedeva, e non sempre, due sole corse settimanali, assolutamente insufficienti.
Dopo diversi tentativi a vuoto decisi di fare come molti altri scegliendo di prendere al volo il primo treno per Salerno o provare a salire sui lunghi treni merci che, insieme a quelli militari, avevano la priorità. Si trattava di fare un viaggio da clandestino, non avevo infatti trovato il biglietto, ma in quei giorni la legalità e le regole venivano da tutti ben poco rispettate.
Dunque, alla fine, mi toccò in sorte il treno merci 8015, che diventò a Battipaglia l’8017 (non dimenticherò mai più questa sigla), in partenza da Napoli e diretto a Potenza. Sembrava un colpo di fortuna, se fossi riuscito a salirci su, avrei potuto viaggiare direttamente da Napoli a Potenza, senza dover cambiare treno e senza dover attendere altri giorni. Il convoglio era destinato infine a caricare legname a Catanzaro per la ricostruzione dei ponti distrutti dalla guerra.
Riuscii a sistemarmi in un vagone chiuso (molti erano aperti) adibito forse a carichi animali ma, per mia fortuna, vuoto e probabilmente ripulito anche da poco. Insieme a me c’erano numerose persone, alcune senza biglietto, ma altre con regolari titoli di viaggio, acquistati anche i giorni prima, proprio per quel treno che non avrebbe dovuto avere passeggeri a bordo. Tutta quella variegata umanità era però ormai da tempo senza molta fiducia per il presente e per il futuro, dovendo fare questo viaggio della speranza, proprio per poter sbarcare il lunario e scambiare un po’ di prodotti della terra con oggetti, principalmente vestiti e mercanzia varia (infatti si era tornati ahimè al tempo del baratto: la guerra fa anche questo), per poter sfamare la famiglia o magari da rivendere a Napoli, spesso a favore degli approfittatori del mercato nero, che acquistavano tali prodotti per poche lire per rivenderli a prezzi quadruplicati.
Guardavo sconsolato quei volti afflitti dalla miseria e da più di tre anni di guerra, di bombardamenti e di privazioni. Erano quasi tutti napoletani o campani. Alla fine del conflitto, Napoli avrebbe scoperto di essere stata la città italiana più bombardata durante quella maledetta e assurda guerra, che stava per terminare di lì a un anno. C’era davvero poco da stare allegri, anche se per me sarebbe stato l’ultimo viaggio prima di approdare finalmente a casa.
Mi accucciai, nel vero senso della parola, in un angolo del vagone un po’ più riparato, con la testa conficcata nel cappello di lana e un buon numero di fogli di giornali infilati tra la camicia e il maglione, sotto il cappotto militare, opportunamente adattato e “reso civile” con vari accorgimenti, per evitare problemi.
Anche se i chilometri da percorrere non erano tantissimi, il lungo convoglio avrebbe comunque impiegato presumibilmente parecchio tempo per arrivare a destinazione, sia per le numerose salite da dover affrontare, sia per la neve che avremmo sicuramente incontrato e sia per le norme di sicurezza che, in tempo di guerra, non consentivano velocità elevate, proprio per evitare possibili problemi di attacchi aerei o per scansare eventuali nuovi danni alle infrastrutture ferroviarie.
In sintesi dunque non c’era da stare molto tranquilli perché la guerra era in corso, in quei giorni, comunque non lontanissimo da noi, essendo tedeschi e alleati fermi sulla Linea Gustav, che passava per Cassino. In quegli stessi giorni i tedeschi avevano praticamente fallito l’“Operazione Barbarossa” in Russia e in Italia, anzi nella Repubblica di Salò, erano iniziati, proprio il 1° marzo, coraggiosi scioperi degli operai delle fabbriche contro la guerra.
Ma le tristi vicende della “grande storia” erano per la verità ormai piuttosto lontane dai pensieri di quella mesta e sconsolata umanità, sempre in affannosa ricerca di qualcosa per arrivare al giorno dopo, senza avere la possibilità di pensare oltre. Si potevano scorgere una moglie che accompagnava il marito a prendere il treno, con la valigia di cartone piena di cose da poter barattare, nella speranza di portare a casa qualcosa da mangiare o da poter vendere, più in là un professore universitario con alcuni alunni, anche loro costretti a dover prendere questo treno, alcuni militari di scorta, donne con i figli al seguito, molti ragazzi, ferrovieri che chiudevano un occhio impietositi da tanta povertà e tanti disperati che cercavano di poter aspirare a un briciolo di speranza con quei viaggi della miseria.
Ognuno, con dignità e rispetto per il proprio vicino, cercò di trovare il posto migliore possibile. Feci sedere accanto a me, in un punto leggermente un po’ più riparato, una giovane donna che aveva con sé un bambino di 4 o 5 anni, visibilmente smunto ed emaciato, probabilmente a causa dei lunghi digiuni forzati, che sembrava anche più piccolo della sua età, forse proprio a causa della malnutrizione. Dalla sacca che avevo nascosto sotto il cappotto tirai fuori una scatola di biscotti “Maggiora”, che ero riuscito a procurarmi a Napoli, prima di partire. Chiesi alla madre se potevo offrirli al bimbo e lei accettò di buon grado, senza dire nulla: mi diede il consenso con un sorriso di ringraziamento e con un cenno del capo.
«Ciao piccolo, prendi questi biscottini, sono buoni, ma conservane qualcuno anche per la mamma, mi raccomando!»
Il bambino alla vista dei biscotti sorrise felice e gli si illuminarono gli occhi: chissà da quanto tempo non ne mangiava uno.
«Ringrazia il signore che è stato così gentile con te!», gli intimò la mamma.
Con una vocina allegra mi disse: «Grazie, signore…buono!»
Al che io e la mamma scoppiammo in una allegra e piacevole risata, in effetti non si sapeva se il “buono” era rivolto a me o ai biscotti, ma alla fine pensai proprio a questi ultimi.
Il bambino, che poi mi disse di chiamarsi Peppino, era molto sveglio e intelligente e non si fece ripetere l’invito due volte, infatti, avendo avuto il consenso dalla madre, iniziò a mangiare di gusto.
Feci segno nuovamente alla madre di prendere anche lei qualche biscottino, ma preferì lasciare tutto al figlio, come aveva già fatto chissà quante altre volte in quegli anni di guerra. La donna, come mi raccontò in seguito, era purtroppo una delle tante probabili vedove di guerra, infatti suo marito, dopo l’8 settembre, dalla Grecia dove era distaccato, non aveva dato più notizie di sé, il comando alleato l’aveva solo invitata ad attendere, perché poteva essere tra i caduti, ma anche tra i numerosi prigionieri che avevano fatto i tedeschi in quei giorni caotici, oppure potrebbe aver aderito alla neonata Repubblica Sociale Italiana, lo stato fantoccio voluto dal Führer con a capo Mussolini, ma quest’ultima ipotesi appariva piuttosto improbabile, dato che, in questo caso, sarebbe stato sicuramente più semplice comunicare con la famiglia e far sapere di essere ancora vivo.
Il treno, che giunse a Battipaglia poco prima delle 18 e ripartì verso le 19, dopo un vano tentativo da parte degli alleati di farlo sgombrare dagli “abusivi” (in pratica la gente usciva dai vagoni da una parte e ne rientrava dall’altra), era un convoglio enorme composto da quasi 50 carri per una lunghezza di oltre 500 metri, con in testa due locomotive che avrebbero dovuto caricarsi il peso del tragitto, arricchito spesso da ripide salite. Fino a Battipaglia la trazione era stata elettrica con una locomotiva E.626, ma da lì a Potenza sarebbe toccata alle due locomotrici a vapore, una 480 in testa e una 476 subito dopo, portare il lungo serpentone di ferro e “umanità” a destinazione, attraverso uno dei tratti ferroviari più spettacolari e belli d’Italia, con la natura selvaggia a fare da padrona, alti strapiombi e gallerie in salita.
Il viaggio proseguì senza particolari problemi lungo tutto il percorso, la gente cercava di dormire essendo notte inoltrata e, nonostante lo sferragliamento dei vagoni e il caratteristico rumore delle locomotive a vapore, la maggior parte delle persone si addormentò velocemente vinta dalla stanchezza e dalla fame. Anche Peppino e la madre si addormentarono presto, il piccolo almeno con la pancia piena di biscotti Maggiora. Presero sonno entrambi quasi subito, il bimbo tra le braccia della madre, nel tentativo di dargli ulteriore calore con il suo corpo in quella notte fredda e umida.
Anche io mi appisolai un po’ rannicchiandomi nel mio cappotto, ma non riuscivo a dormire in modo profondo, mi svegliai praticamente a ogni fermata del treno, non tanto per la posizione poco comoda o per il freddo a tratti pungente, specie tra le montagne lucane, ma piuttosto a causa di una strana sensazione di ansia e inquietudine, che mi sembrava stesse aumentando sempre di più, da quando avevo messo piede su quel treno.
Poco dopo la mezzanotte il convoglio fece una fermata un po’ più lunga delle precedenti, durò circa 50 minuti. Mi alzai, senza svegliare gli altri, e mi affacciai alla fessura in alto con la grata, che serviva per far respirare meglio gli animali: in quel momento sentii tutto il peso della considerazione che si aveva di noi, ovvero pari a degli animali, anzi peggio, perché anche loro avrebbero sempre diritto a un trattamento più degno di quello che ci stavano riservando.
Vidi l’insegna della stazione di Balvano-Ricigliano, oramai pensai che eravamo a non molta distanza dall’arrivo.
Andai nuovamente al mio posto e il treno dopo pochi minuti ripartì. Percepii, dallo sferragliare dei vagoni sulle rotaie, che quel lungo serpentone di ferro stesse superando il ponte ferroviario del torrente Platano, prima di iniziare la sempre più ripida salita che avrebbe portato a Tito, uno dei punti più alti del tragitto e con la maggiore pendenza, sensazione confermata poco dopo dalla vista dell’ingresso della stretta e lunga, quasi due chilometri, Galleria Delle Armi, con una pendenza di quasi il 13 per mille, a circa sette chilometri dalla stazione successiva di Bella-Muro.
Mi aspettavano due chilometri di buio assoluto, decisi così di provare a riaddormentarmi un altro poco.
Notai però che il treno, dopo un po’, stava iniziando a perdere velocità sempre di più, pensai che ciò fosse dovuto alla forte salita e non ci feci caso più di tanto.
Invece nelle locomotive davanti la situazione non era delle migliori. Le forze motrici stavano arrancando un po’ troppo e la velocità era diventata pericolosamente troppo bassa. Nella seconda locomotiva un piccolo lume a olio si era spento segnalando la scarsa presenza di ossigeno, fungendo così indirettamente da pericoloso segnale d’allarme. Poi all’improvviso il treno, dopo un paio di scossoni si fermò del tutto dopo circa 450 metri dall’ingresso. Probabilmente il macchinista del primo locomotore, Espedito Senatore, prima di svenire, tentò di alimentare la potenza della macchina, ma causò così un ulteriore aumento della concentrazione di fumo e gas, poi cercò di fare retromarcia.
Forse il macchinista dell’altro locomotore non capì il motivo di quel cambio di marcia o non sentì correttamente i fischi di avviso della prima locomotiva, se ci furono realmente, ma pensando ad una perdita di trazione, cercò di fare manovra inversa, inoltre il frenatore di coda interpretò quello strano andamento come uno slittamento del treno sulle rotaie umide e, come da procedura, azionò i freni che bloccarono il convoglio del tutto. I ferrovieri delle locomotive persero velocemente i sensi e morirono subito dopo, tranne uno che cadde dalla vaporiera svenuto, lasciando il treno fermo e con le caldaie accese a riempire ancora di più il tunnel di fumo e gas.
Capii che c’era qualcosa che non andava, perché un treno a vapore non si deve mai fermare in una galleria, tra l’altro così lunga, stretta e senza un sistema di aerazione idoneo. Dopo un po’ notai che il vagone stava leggermente arretrando di qualche metro, ma poi si fermò nuovamente e nulla più.
Attesi qualche minuto nella speranza che il treno ripartisse, ma ciò non accadde.
Allora svegliai immediatamente la mamma che era accanto a me, gli spiegai la situazione e gli dissi che la cosa non mi piaceva per niente.
Avevo percepito subito che quello stato di cose era a dir poco preoccupante. Stare fermi in una galleria senza sbocchi d’aria idonei, se non l’entrata e l’uscita, come quella dove eravamo fermi che conoscevo bene e che ricordavo essere molto lunga, con due macchine a vapore in testa al treno che, immaginavo, continuassero nel frattempo a sbuffare, non era proprio una situazione agevole e serena. La mia vana speranza era che almeno le locomotive fossero già uscite dalla galleria, ma immaginai che quella potesse essere solo una fortunata coincidenza, ma molto poco probabile.
Avendo esperienza militare su cosa fare in caso di attacco con gas, non avendo altro, bagnai con dell’acqua il mio fazzoletto e quelli della donna e del suo bambino, sperando che potessero fungere da improvvisata maschera antigas.
Dissi alla donna di aspettare qualche minuto, molte delle persone stavano continuando a dormire.
All’improvviso mi accorsi che alcune di loro accanto a me non stavano realmente dormendo, ma che erano transitate dal sonno alla morte senza nemmeno accorgersene.
Provai a svegliare la maggior parte della gente, qualcuna rispondeva, qualcun’altra no. Mi fermai quindi un istante per riflettere. Intimai alla donna di uscire il più velocemente possibile dal vagone e andare in direzione inversa di come stava viaggiando il convoglio, correndo verso la coda del treno, perché immaginai sia che quella uscita fosse più vicina, sia perché, andando verso i locomotori, la concentrazione di fumo e gas sarebbe stata sicuramente più consistente e certamente più pericolosa. Mi raccomandai con lei di non togliere mai, fino all’uscita, il fazzoletto bagnato dal suo volto e da quello del piccolo che, non sapendo cosa stesse accadendo, come un ometto, seguì con attenzione tutte le mie indicazioni, senza fare capricci.
Nel frattempo, in grande fretta, cercai di svegliare e dare indicazioni a più persone possibili, ma mi resi conto che quasi tutti erano già senza vita.
Alla fine mi arresi, compresi che non avrei potuto fare molto di più, se non rischiare di svenire e morire io stesso, e iniziai a correre verso l’uscita. Incontrai nuovamente la mamma e il bambino che avevo aiutato a fuggire e presi il piccolo in braccio per accelerare il passo, fino all’uscita di quel maledetto girone infernale.
La scena che mi si presentò lungo il tragitto fu straziante, numerosi corpi di uomini, donne, ragazzi e vecchi distesi senza vita nei vagoni e accanto ai binari e io costretto a fare attenzione a non calpestare nessuno, scavalcandone uno ad uno, come si fa per un percorso ad ostacoli.
Sfinito per la corsa, per il peso del bimbo che mi ero portato in braccio e anche per il monossido di carbonio, come avrei saputo in seguito, che, nonostante il fazzoletto inumidito, avevo comunque inalato, mi sedetti sulla rotaia di quella disgraziata linea ferroviaria. La testa mi girava un po’, avevo anche una leggera nausea, che comunque provai a non trattenere, mi sforzai di vomitare pensando che sarebbe stato meglio espellere eventuali residui di fumo e veleno. Il monossido di carbonio è un gas incolore e inodore, un nemico subdolo e silenzioso che si insinua dentro di noi, in molti casi senza accorgercene nemmeno, in particolare se si sta dormendo, come la maggior parte delle persone a bordo di quello sfortunato treno, e può far passare dal sonno alla morte in modo velocissimo, estremamente “naturale” e senza averne alcun sentore.
La donna e il bambino erano salvi entrambi, ma non le altre 500 o 600 e più persone, la maggioranza colte nel sonno, spinte dalla fame a prendere a ogni costo quel maledetto treno, il convoglio 8017, che non sarebbe mai dovuto partire in queste condizioni, che non doveva essere così lungo e pesante, che, come molti hanno sostenuto, non doveva essere caricato di carbone di scadente qualità (fornito dagli alleati e proveniente dai Balcani), il quale ha forse contribuito alla difficoltà del treno ad avanzare e allo stop nella galleria (ma indagini successive hanno anche smentito tale ipotesi), che avrebbe dovuto avere le locomotive una in testa e una in coda in senso contrario a quello di marcia, non entrambe in testa, e che il peso complessivo non doveva superare le 350 tonnellate, come prevedeva un’ordinanza di circa un mese prima, dopo un altro incidente, ma che per l’8017 non era stata rispettata, che quella notte una combinazione di umidità, freddo, assenza di vento e nebbia ha contribuito ulteriormente alla tragedia rendendo viscidi i binari, che era già capitato nei giorni precedenti che dei treni rimanessero fermi in quella galleria, per fortuna senza incidenti perché erano riusciti a ripartire, divenendo soltanto moniti inascoltati e che infine, probabilmente quella che fu la causa primaria di tante morti, i soccorsi arrivarono con il grave ritardo di oltre cinque ore e con poca possibilità di salvare le persone.
Alla fine, il giorno dopo, riuscii ad arrivare a Potenza. La mia vita, da quella notte non fu più la stessa.
Oltre a numerosi problemi di salute, che comunque vennero causati dal monossido inalato, l’incubo di quella notte buia, le centinaia di corpi senza vita incrociati prima nella galleria e poi distesi a terra sulla banchina della stazione di Balvano, dove furono portati tutti i deceduti, molti senza nome, non mi abbandonò mai più. Dormire per me divenne un incubo per la ricorrenza continua nei sogni di quelle tristi immagini. Non fui più in grado di prendere un treno per almeno vent’anni e, se proprio dovevo per forza salirci su, a ogni galleria il mio cuore iniziava a tambureggiare furioso e si calmava solo quando si riemergeva alla luce. La mia tristezza è acuita dal fatto che tale tragedia, figlia indiretta di signora guerra e signora povertà, ha fatto di questi morti vittime di seconda serie, non meritevoli di doverosa considerazione e destinati a essere dimenticati dai più, quasi da doversene vergognare.
La maggioranza delle persone coinvolte provenivano da Napoli e molti da Resina (oggi Ercolano, 80 vittime), ma anche una da Marigliano e una da Mariglianella per rimanere nell’area nolana. Tra i superstiti risulterà anche un cittadino di Roccarainola, Domenico Miele, che si salvò grazie a una sciarpa di lana avvolta intorno alla testa e al collo e utilizzata per riparare anche il naso e la bocca dal freddo, e che contribuì a far inalare solo una quantità minima di monossido. Ebbe la lucidità di scendere dal treno e svenne nell’ultima carrozza dove, probabilmente, avendo sentito dei lamenti, cercò di vedere se ci fosse qualcuno che avesse bisogno di aiuto. Miele si ritrovò alla fine salvo, ma con i capelli che, da quel giorno, divennero completamente bianchi.
Successivamente, il risultato di svogliate indagini portò ad attribuire la strage a una somma di sfortunate concause non imputabili a nessuno e nessuno fu ritenuto responsabile di ciò: in pratica tanti colpevoli, quindi nessun colpevole. Inoltre, in molti casi, nemmeno i miseri risarcimenti, in seguito stabiliti, arrivarono a destinazione e, sulla storia della più grande tragedia ferroviaria italiana, con oltre 600 morti (626 secondo le ricerche di Gianluca Barneschi), moltissimi nemmeno registrati e in modo anonimo seppelliti in fosse comuni, cadde il velo del silenzio, forse perché non conveniva a nessuno ricordare tutta quella povera gente morta per la necessità di dover salire su di un treno che nessuno, in condizioni normali, avrebbe preso. La generosità e la pietà degli abitanti di Balvano, la caparbietà di pochi studiosi e la volontà di alcuni discendenti delle persone decedute in tale tragedia hanno fatto sì che non se ne perdesse totalmente la memoria. A Balvano una stele rammenta le vittime, ogni anno si svolgono manifestazioni e rimane viva la memoria dell’immane tragedia che coinvolse la piccola cittadina lucana, come anche il ricordo del dottor Orazio Pacella, che salvò numerose persone, oppure di Salvatore Avventurato, che perse padre, fratello e zio, e che fece costruire, nel piccolo cimitero di Balvano, una cappella in memoria delle vittime, denominata la “cappella dei napoletani”, per la provenienza della maggior parte dei defunti, e che riporta all’ingresso la scritta: «In memoria degli stessi, al ricordo dei posteri, fece erigere questo asilo di pace, ove ricompose i miseri resti».
Questo breve racconto è liberamente tratto dalla triste vicenda che colpì il treno 8017 il 3 marzo del 1944. I nomi dei principali protagonisti non sono reali e sono solo frutto della narrazione. Tutto ciò vuol essere anche un piccolo e modesto contributo al ricordo di tale terribile tragedia, ancora ingiustamente troppo poco nota, e alla memoria delle tante persone che persero la vita sul quel maledetto convoglio.
Per chi volesse approfondire l’argomento con maggiore dovizia e in modo più dettagliato e preciso segnalo, tra gli altri, la bellissima, documentatissima e dettagliata ricerca di Gian Luca Barneschi Il disastro dimenticato (Edizioni Cantagalli) che ha raccolto, fino in Gran Bretagna, la residua documentazione esistente. Altro lavoro importante è il libro di Mario Restaino Un treno, un’epoca: storia dell’8017 (editore Arti Grafiche Vultur). Poi ci sono i bellissimi romanzi di Manlio Castagna La notte delle malombre (edito da Mondadori) e Alessandro Perissinotto Treno 8017 (Sellerio editore) che hanno contribuito non poco a evitare l’oblio sulla vicenda. Ancora numerosi sono gli articoli da poter consultare, tra i quali La più grave tragedia ferroviaria: 600 morti sui binari. La storia dimenticata di Gian Luca Barneschi per Il Giornale, Balvano, la più grande tragedia ferroviaria della storia italiana: 600 vittime sul treno fermo nella galleria della morte (e nessun colpevole) di Dora Farina per il Corriere del Mezzogiorno, Il più grave disastro ferroviario della storia d’Italia, ottant’anni fa su Il Post, La strage di Balvano fu il peggior disastro ferroviario italiano su Focus e l’interessantissima pagina realizzata sul sito trenidicarta.it che raccoglie tutte le testimonianze e gli articoli dai primi, come quelli di Giulio Frisoli pubblicati su L’Europeo, dodici anni dopo la tragedia, a quelli più recenti. Inoltre da segnalare il bel documentario Balvano, il Titanic ferroviario realizzato da Rai Storia nel 2017 e il film Volevo solo Vivere. Treno 8017 l’ultima fermata di Antonino Miele e Vito Cesaro, con Carlo Croccolo, Nicola Acunzo, Emiliano De Martino e Stefano Simondo.
Sono trascorsi 80 anni, ma la memoria non deve mai andare in “pensione”.