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Si narra che diversi anni fa, durante un viaggio in aereo, Carlo Petrini e l’allora Amministratore Delegato di McDonald’s si siano ritrovati seduti di fianco. In risposta al visibile imbarazzo del compagno di viaggio, pare che il Fondatore di Slow Food abbia semplicemente sorriso e detto: “Se voi non ci foste stati, non saremmo mai nati neanche noi”.

Così, mentre c’è chi continua a dedicare le proprie energie a degustazioni comparative che aiutino i nostri sensi a riconoscere il sapore vero del cibo, c’è allo stesso tempo chi studia i nostri comportamenti per misurare le reazioni agli stimoli sensoriali e provocare gli acquisti, ancorché d’impulso, allo scaffale, reale o elettronico che sia.

Quali sono i misuratori dell’appetibilità di un prodotto, e, per entrare nello specifico, di un prodotto agroalimentare? Secondo i professionisti del marketing è necessario partire da tre fattori strategici: il packaging, la comunicazione, la funzionalità.

Le tappe di un ipotetico viaggio verso la scoperta dei piccoli incantesimi che intrigano la nostra mente nelle scelte d’acquisto, partirebbe allora dalla confezione, quel “venditore silenzioso” che da solo ne influenza il trenta percento. Basta soffermarsi davanti agli scaffali di un qualunque supermercato per notare che molte commodities non alimentari hanno mutuato il confezionamento dei cibi: shampoo, creme per il corpo, prodotti di bellezza sono sempre più spesso rivestiti da confezioni che ricordano quelle delle marmellate, delle vaschette di gelato, dei succhi di frutta.

È solo uno dei risultati del neuromarketing, un campo di studi i cui metodi di osservazione sono essenzialmente suddivisi in registrazioni delle attività cerebrali e non cerebrali. Tra queste ultime ha dato risultati straordinari il cosiddetto “eye-tracking” (tracciamento dei movimenti degli occhi) rilevando, tra le altre cose, espressione, punti osservati, velocità di movimento, allargamento e restringimento delle pupille.

Riguardo i nostri comportamenti on line, già da tempo i termini utilizzati nelle ricerche, attraverso la digitazione o i comandi vocali dello smartphone, sono riclassificati nei cosiddetti “big data”, aggregati di informazioni che definiscono i “cluster” (tipologie di consumatori) da “aggredire” con specifiche strategie di marketing che sappiano allentare le maglie dei nostri freni inibitori.

Un primo affascinante campo di applicazione è quello dei colori: la nostra mente associa, per esempio, il rosso, che è molto usato nel food, all’energia, alla passione e all’eccitazione; il blu rappresenta la freschezza, la tranquillità, l’igiene, di solito è utilizzato per i detersivi e i prodotti freschi, ma anche dalle banche che vogliono trasmettere affidabilità; il verde, manco a dirlo, è il colore della natura, tanto che trovare un prodotto biologico in confezioni che non facciano ad esso almeno un rimando, è praticamente impossibile; il bianco, simbolo di pulizia e freddezza, distingue i prodotti light; il nero ricorderebbe la raffinatezza, la modernità e l’eleganza, pertanto riveste prodotti di cui si vuole comunicare la qualità; l’arancione è il colore dei gusti stuzzicanti (si pensi all’ingrediente degli Spritz, uno dei must dell’immaginario collettivo in campo di aperitivi), insieme al giallo riconduce all’allegria e si usa nelle vetrine per attirare gli sguardi; il marrone, colore della tradizione, non manca mai nelle confezioni di prodotti a base di cioccolata e in quelle dei torroni. Ma gli ingredienti della pozione magica per l’innamoramento dei consumatori vanno oltre.

Lo scaffale del latte, per esempio, non ospita più solo il classico derivato di origine animale, ma anche quelli della soia, del riso e di altre materie prime, i quali gli rubano in qualche modo la scena e instillano nel consumatore la familiarità col concetto che in un contenitore in tetrapak (tanto per essere chiari) si può trovare sempre lo stesso tipo di bevanda. Infatti è “drink a base di…” la descrizione del contenuto degli altri. Andando invece a leggere la retro-etichetta, si scopre che quelle dei succedanei riportano addirittura delle “istruzioni” come “agitare bene prima dell’uso” (per rimescolare la parte liquida e quella farinosa o grassa che, in alimenti diversi dal latte classico, tendono a separarsi, ndr).

A ben vedere, sono tante le sorprendenti rivelazioni: una tra queste riguarda la composizione, che ci rivela che un contenuto dichiarato pari a circa dieci albumi d’uovo pastorizzato può costare quattro euro e cinquanta (ma dei superfood ne parliamo un’altra volta). E giusto per rimanere in tema, occhio al peso del contenuto, oggi sempre più ridotto a parità di grandezza della confezione e di prezzo, dando vita al fenomeno della “shrinkflation”, letteralmente “l’inflazione degli involucri”.

È quindi il caso di rassegnarci? Di lasciarci semplicemente manipolare, dibattuti tra le suadenti suggestioni allestite dagli “ingegneri dell’esperienza”, scevri ormai da ogni istintualità, destinati all’appiattimento sensoriale che ci vuole orientati verso l’omologazione dei sapori? O dobbiamo forse pensare alla spesa come un savana da affrontare con il coltello tra i denti?

Quale potrebbe essere la chiave di volta per riabilitare la sensorialità atrofizzata, recuperare il patrimonio di abilità percettive che ci identifica ancora come esseri umani?

Un’arma decisiva rimane certamente la curiosità, non la diffidenza, non il complottismo, ma l’attitudine alla sperimentazione, la riscoperta del concetto di “buono”, il soffermarsi sull’esperienza della masticazione, l’ascolto” delle vie retrolfattive, il riabituarsi ad annusare, palpare, osservare i prodotti agricoli, i cibi cucinati, le bevande.

E se è vero che (come hanno dimostrato diversi esperimenti) compriamo più o meno velocemente secondo la riproduzione musicale nell’ambiente di acquisto, o ci predisponiamo in modo diverso alla degustazione a seconda della colorazione scelta per l’ambiente di somministrazione, se è vero, ancora, che mangiamo più volentieri le pietanze adagiate nella forma morbida di un piatto tondeggiante, piuttosto che quelle inquadrate nelle forme rettangolari, sempre alla ricerca di escamotage per gabbare l’insoddisfazione latente con l’edonismo e l’ostentazione, ci rimane ancora la possibilità di scegliere consapevolmente, qualunque sia la decisione finale.

“Se voglio mangiare bene sono un elitario, se rispetto la tradizione sono ancorato al passato, se seguo regole di buona ecologia sono noioso, se guardo all’importanza del mondo rurale sono in cerca di bucoliche sensazioni… È difficile parlare dell’importanza del cibo e dell’agricoltura, del valore di saper produrre e consumare alimenti in maniera sostenibile, senza incappare in simili critiche, più che altro figlie di luoghi comuni… Il piacere è un dono della natura; contrapporlo all’impegno e all’etica non aiuta a comprenderne la bellezza… Riappropriamoci dei sensi per capire cosa è buono e conoscere meglio quello che ci circonda, riappropriamoci della realtà” (Carlo Petrini).

Bibliografia:

  1. Neuromarketing e packaging: applicazioni nel settore Food – Carmela Nesci -Tesi di laurea, 2023
  2. Come non farci mangiare dal cibo © Giunti e Slow Food Editore, 2009