Un bancario e un fruttivendolo, entrambi milanesi, abbandonano le rispettive occupazioni e si mettono a girare la Lombardia a cavallo, cercando non si capisce ancora che cosa. Lungo l’Adda, compagno fedele del viaggio dei due, incontrano un barbone, saggio e malinconico, che dà loro qualche indicazione preziosa.
Già da sette giorni Tallo e il cavaliere
Maspero, un tempo ragioniere, cavalcavano
e mangiavano biscotti, nespole scudrigne (1)
e scatolette di tonno al naturale,
scostando pigne e foglie secche con gli zoccoli
dei bai del buon Marino bergamasco,
e rasentando il bosco del Parco Naturale,
dentrofuoreggiando con prudenza, le guardie
forestali ad evitare, riposando a notte
in sacco a pelo, sotto il terrapieno dei guardrail.
Un po’ barboni, un poco ricercati al bando,
e ricercati lo erano davvero dai parenti,
apparsi da scomparsi alla tivvù, invero
felici come in fuga dalla scuola:
appariva come oggetto di ricerca la ricerca
stessa, e anche i pungoli di fede amici
e poco infesti diventavano, pian piano
nella notte sul cavallo, con la luce
della strada accanto, e le cicale ininterrotte
fra i radi rumori d’autocarri.
Al mattino l’oro verde delle foglie
levigate dal sole, l’erba profumata
croccante come cialda, la calda
sfumatura fra il grigio ed il marrone
degli ontani, e in fondo in fondo
finché lo sguardo non si perde
l’acqua densa sul tono di bluette dell’Adda,
inebriavano il petto ed il respiro.
Tallo si scordava i conti da pagare,
l’affitto del negozio della Bice, o i prestiti
avuti dalla banca per Ferrante,
il contante scarso dei suoi banchi,
sempre parchi di frutta naturale;
inalava l’aria fredda e ossigenata o l’ombra
profumata dei carpini rossastri lungo l’Adda,
guardava planare folaghe, o stare gli astri
come tasti di un’immensa bottoniera, e l’universo
intorno gli appariva semplice e diverso
dallo spicchio di cielo sopra il Duomo.
Maspero invece, inquieto, – Non mi basta-
si diceva – una vita errante: errare
è un errore per chi erra solo per errare-.
Maspero Ferrante ragioniere, cavaliere
per nome e vocazione, voleva qualche cosa:
che il suo nome, che sua madre, la maestra,
gli diede per Ferrante e per Prassede,
gli desse rango a vero cavaliere,
per questo stava dritto col cipiglio,
su a cavallo, pronto a prendere un abbaglio
per un segno del destino, e ansioso
di incontrare le presenze.
Sentito intorno avevano d’un vecchio,
vecchissimo barbone, abitante una cascina
in riva all’Adda, verso Cavacurta,
prima del convento e del sentiero,
un’occasione per conoscere qualcuno
vero, non finto, falso o affatturato.
Si diceva fosse vecchio quanto Adamo, ed il diluvio
poteva averlo visto. Valdemaro si chiamava,
Valdemaro Olona, seppero più tardi.
Ci arrivarono il meriggio: fredda l’aria,
il cascinale basso, bianco spento
fra le canne d’un canneto a riva fiume
si vedeva male, il tubo della canna
fumaria s’ergeva solo, intorzolito
dalla guazza serale, e un tondo finestro
senza infissi occhieggiava, semichiuso
da un velo come organza, un punto in mezzo.
Fuori un husky bianco, un buon batuffolo
di pelo, gli occhi fermi, l’iride cilestro,
nel vuoto silenzioso della riva,
in faccia all’acqua placida del fiume.
Il cielo intorno era di quel grigio,
sulle canne e sui falaschi giallo-biacca,
di quel grigio limpido e iemale che non stacca
un orizzonte, ma avvolge un mondo solo,
naturale o animale, infraumano o oltreumano,
quel colore padano che è da solo
pura malinconia, un liquido aurorale.
Maspero e Tallo scesero dai bai;
avevano cavalcato a sud, per Truccazzano,
Lombardia, ma sembrava la Bretagna,
l’Adda fosse l’Hudson o il serpe parigino,
ma d’altronde tutti i fiumi cosa d’altro
sono se non un fiume solo, e l’occhio
non è lo stesso occhio innamorato e perso?
Dentro, Valdemaro li aspettava. Come sapesse
di loro, il suo sorriso, la moka stazzonata
che fumava di caffè, insomma non lo disse.
-Venite, oggi il freddo buca. Il caldo
dovete venire a prenderlo qui dentro.-
Era un vecchio rinsecchito eppure algido
come un mistico visionario del deserto,
lo sguardo azzurro, il gesto aperto, il cuoio
a solchi ocra scuro della fronte offerto
all’aria e al dialogo coi venti,
la faccia triangolare, quattr’ossa stagionate,
era insomma, certo, un uomo calmo.
-Dicono che ho visto il diluvio, e d’acqua
ne ho sentita sulla pelle, fino ad ossidare
le giunture, il cielo venir giù, le stelle
tramontare dilavate. Cinquemila anni
dicono che abbia, o qualcuno in meno,
certo tutti gli anni li conservo qui.-
E si picchiò la fronte a palmo aperto.
-Perché l’uomo è perduto adesso?
Perché io giro col cavallo assieme al Tallo,
con un tarlo nel cervello, e poi sospiro,
perché giacerei disteso sopra l’erba
come un ghiro fino a primavera, e il cielo
non mi appare, in alto, che un’assenza?-
-Troppe domande, bevi il tuo caffè,
freddo e fatica ti infiacchiscono, fai male.
L’uomo è forza, ti dico, non scordarlo.-
-L’uomo è niente adesso, che Dio non c’è.-
-L’esserci è il durare, l’avere resistenza
nelle ossa, come l’acqua gocciare sulla roccia,
Dio è la goccia, o un malato che pazienta.-
-Che c’era prima, al tempo del diluvio?-
-Prima del diluvio o della guerra,
cinquanta o cinquecento anni fa,
c’era il tempo, un tempo per ciascuno
da compiere con coscienza religiosa.
Dio e il tempo hanno il liquido in comune,
stacci attento, un’acqua limpida e lavante:
e si torna sempre al tema del diluvio.-
-Che avete voi, del tempo della guerra?
Sembra sempre che siate un’altra razza.-
chiese il Tallo sorseggiando la bevanda.
-Forse siamo di quel tempo dei giganti;
c’erano anche quelli, e ancora oggi,
se tu vedessi a Trezzo il Bastianelli,
vecchio ma smussato come un sasso…
corpi lenti, ma saldi come roccia.-
E sorrise pazientando, tazza in mano.
Parlarono per ore, il Maspero ed il Tallo,
poi ripresero ciascuno il suo cavallo.
Salutato l’antico Valdemaro, i due capiscono che la loro ricerca nasce da un sentimento elementare, che ha a che fare di nuovo con lo stare in mezzo alla natura e con un insopprimibile bisogno di spiritualità.
1 – Significa “acerbe e amarognole” in dialetto modenese (N.d.A.)