Fare antimafia: percezione pubblica e percorsi di impegno
Federico Esposito
Diffusosi dopo le stragi del 1992, il movimento antimafia sembra vivere oggi una fase di stanca per via della mutata percezione pubblica circa la sua utilità. Commemorazioni, iniziative, mobilitazioni appaiono come vuoti momenti di autocelebrazione dei militanti stessi. Sottende questo pensiero la convinzione che le mafie siano militarmente più deboli a causa della riduzione dell’esercizio di violenza. La percezione delle mafie si accompagna infatti alla manifestazione concreta della morte. Senza quest’ultima, esse si inabissano nel discorso pubblico emergendo soltanto in occasione di grossi fatti di cronaca. In tali circostanze si configura spesso un ulteriore orientamento pubblico: la convinzione che esista un sistema criminale in grado di determinare le sorti della nazione. Da un lato, dunque, la percezione delle mafie si aggrappa all’immaginario della violenza e del suo più ridotto utilizzo; dall’altro, si fa strada una visione panmafiosa secondo cui tutto è mafia. In questo quadro, l’antimafia sociale funge da bersaglio privilegiato. Se tutto è mafia, la militanza non serve; se le mafie sono soltanto fenomeni violenti, il contrasto ai clan è ricerca di vanagloria personale. Questa impostazione risente della cosiddetta epica dell’antimafia, con l’eroismo a incarnarne l’elemento distintivo: senza rischio, non c’è antimafia. Eppure, fin dalla genesi delle prime consorterie mafiose si sono registrate forme di opposizione civile. Una storia parallela e dall’esito innegabile e non scontato: aver cambiato l’atteggiamento della popolazione nei riguardi della criminalità. Un processo che ha investito migliaia di persone grazie al superamento delle emotività e alla promozione di percorsi di impegno continuativi. L’eroismo, insomma, è materia di rappresentazioni.
L’impegno educativo tra democrazia e legalità del movimento antimafia
Luigi Cannavacciuolo
Fenomeni relazionali violenti, le mafie mirano all’accumulazione di profitti e potere mediante il controllo di contesti territoriali spesso caratterizzati dalla compresenza di povertà materiali, educative e culturali. I luoghi di formazione assumono quindi una centralità strategica. La scuola in questi anni ha subìto una rivoluzione passiva – dall’introduzione dei principi di governance aziendale fino all’intensificazione della didattica per competenze – che ha causato la riduzione degli spazi di democrazia interna e prodotto profondi disagi alla popolazione studentesca. Paradigmatica è stata la gestione del ritorno a scuola dopo le restrizioni anti-covid, periodo complicato per chi si è trovato costretto ad alternare assiduamente test a crocette, compiti, interrogazioni e verifiche, subendo un carico di stress emotivo che ha amplificato le ansie già accumulate durante la pandemia. La cultura mafiosa si nutre anche del disorientamento dei giovani e si fonda sulla sempre più residuale capacità di sviluppo di una coscienza civica, ostacolata dalla pressione sistematica di una miriade di messaggi incentrati sulla violenza e sulla competizione. Presidiare le scuole, diventa dunque imprescindibile nella lotta alle mafie: conoscere e comprendere la genesi della criminalità organizzata e della corruzione, venire a contatto con le storie di vita e di impegno delle vittime innocenti, ascoltare le testimonianze dei loro familiari, costruire relazioni e legami attraverso una didattica che sappia impattare sui valori e sui comportamenti degli individui, generare percorsi di partecipazione e orientare alla cittadinanza responsabile: queste le coordinate culturali che guidano la pedagogia dell’antimafia. L’imperativo è il superamento dello sterile feticcio della legalità, acriticamente sbandierato da più parti. Fare antimafia significa costruire perciò percorsi continui e pensati, volti alla diffusione di valori quali la democrazia, la partecipazione, la giustizia sociale.
Pratiche artistiche e memoria collettiva come strumento di lotta alle mafie
Maria Cammarota
Arte e mafie è connubio non semplice da analizzare. Storicamente, del resto, le mafie hanno trovato un punto di forza nella loro invisibilità materiale e nel racconto della loro inesistenza; ma anche nell’invisibilità concettuale, cioè in quell’incapacità di distinguerle da altre forme di criminalità. Lo spazio che viviamo parla però della realtà sociale e di ciò che è stato, delle trasformazioni che ha subito, dei valori che vi sono stati iscritti. Racconta e produce memoria, la riscrive, la interpreta, a volte cancella. Nel far maturare il senso etico e civico, l’arte può dare la possibilità di denunciare, ma soprattutto di ricordare: spesso diventa il mezzo per sviluppare la propria identità, personalizzando l’ambiente e lo spazio. In quanto campo sociale, l’arte è per sua natura relazionale: costruisce modi di esistenza e modelli di azione, rivelandosi utile all’espressione della collettività. Ha quindi l’obiettivo di riedificare e realizzare uno spazio condiviso di impegno sociale.
Con l’arte è così possibile ricomporre, ad esempio, le relazioni di quartiere, collegarle con il resto della città tramite l’attivazione di canali di scambio e processi di inclusione. Ciò vale soprattutto quando un intervento artistico non risulta finalizzato alla mera contemplazione passiva dei fruitori. È il caso delle produzioni memoriali: non sono poste nello spazio per delegare la responsabilità del ricordo a chi le osserva, ma hanno lo scopo di innescare nell’individuo un moto di responsabilità, un luogo di rifiuto dell’esistente che produce disturbo, rottura, disaccordo. La contemporaneità non si accorge quasi più dei monumenti commemorativi: i simboli del passato si perdono e confondono e la città cresce fagocitando i frammenti di memoria rimasti. Sembra salvarsi ciò che è legato a rilevanti motivi politici, sociali, storici o artistici, ciò che si impone o è espressione di un pensiero e di un sentimento vivo. Il senso è proprio questo: l’arte contro le mafie è impegnata socialmente.
Beni confiscati alle mafie e moria: La pedagogia dei luoghi parlanti
Riccardo Christian Falcone
Quando, tra il ’95 e il ’96, Libera lanciò la sua prima campagna sul tema dei beni confiscati, l’orizzonte era coronare il sogno di chi per primo aveva avuto l’intuizione dell’attacco ai patrimoni mafiosi come strumento di contrasto alle organizzazioni criminali. Il sogno di Pio La Torre, che, agli inizi degli anni ’80, aveva messo nero su bianco questa intuizione. La legge che ne porta il nome, la 646 del 1982, fu approvata a cinque mesi dal suo assassinio (30 aprile) e a dieci giorni da quello di Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre). Se l’unico vero interesse delle mafie era – come è – accumulare ricchezza e accrescere potere e consenso, allora il modo più efficace per colpirle era mettergli le mani in tasca. Ma a questa intuizione occorreva dare una dimensione ulteriore. Perché l’efficacia di questo strumento non poteva limitarsi alla pur fondamentale dimensione repressiva e giudiziaria. Andavano affiancate altre dimensioni, capaci di incidere ancora più in profondità nella battaglia contro le mafie: una dimensione politica, fatta di fiducia nelle istituzioni democratiche; una dimensione economica, di attivazione di circuiti virtuosi di economia sociale a partire proprio dalla restituzione del maltolto; una dimensione sociale e culturale. Ecco perché la legge 109 del 1996, spinta da oltre un milione di firme raccolte da Libera, era il coronamento del sogno di Pio. Un orizzonte che, 25 anni fa, appariva utopico e che invece, 25 anni dopo, ha dimostrato tutta la sua concretezza. Oggi sono oltre 900 le realtà sociali che ogni giorno danno vita a quel sogno, restituendo alle comunità locali – sotto forma di servizi, lavoro, lotta al disagio – i beni appartenuti ai boss. Microstorie di una storia più ampia, nella quale, alle criticità e ai limiti che ancora si registrano, si contrappone la bellezza di percorsi collettivi di riscatto e cambiamento. Percorsi che in decine di casi – una quarantina, secondo i dati raccolti da Libera[1] – incrociano il tema della memoria delle vittime innocenti. Così le esperienze di riutilizzo intitolate alle vittime innocenti generano luoghi parlanti, luoghi di pedagogia, capaci di incidere sulla cultura e sulla memoria collettiva. Tracce per costruire percorsi di impegno e responsabilità, per riprenderci quello che mafie e corruzione ci hanno tolto e sconfiggere l’oblio e la dimenticanza.
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[1] Fatti per bene. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati in Italia. Numeri, esperienze e proposte, a cura di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie – Settore beni confiscati, Roma, 2021