Come Vladimiro ed Estragone, i due clochards protagonisti di Aspettando Godot di S. Beckett, anche Pacebbene e Cirillo vivono un tempo sospeso. Il bradisismo li ha spinti in un quartiere disabitato e in una casa che perde calcinacci, che si sfalda pezzo per pezzo. Tutta la pièce di Manlio Santanelli è giocata sul contrasto tra un prima e un dopo, un dentro e un fuori marcati dalle mura di un ricovero che non presenta uscite di emergenza.
Il prima, riaffiora a sprazzi nei dialoghi tra due uomini che condividono lo spazio ma non la vita. Sono due esistenze alla deriva, maniacalmente legate a piccoli riti quotidiani (il pesce rosso, la possibilità di espletare i bisogni per Pacebbene, la rilegatura di un libro per Cirillo). Il dopo è una routine che assume a tratti i toni farseschi di una vecchia coppia di coniugi incapaci di lasciarsi. Pacebbene è un ex sagrestano, Cirillo un suggeritore. Entrambi hanno vissuto ai margini, si direbbe, dello spettacolo di cui altri erano protagonisti. La strana coppia vive un equilibrio precario basato sul sospetto che l’altro sia un ladro o un assassino. Tutti e due hanno paura di un fuori in cui la presenza umana sembra essere stata soppiantata dalla vita selvatica di gatti randagi e aggressivi. Il telefono, se squilla, squilla per errore e la persona all’altro capo del filo è una sconosciuta che non si riesce a trattenere neppure per un dialogo minimo. Ogni contatto con la realtà è stato reciso da un bradisismo esistenziale e irrisolvibile. Paccebene e Cirillo sopravvivono a se stessi difendendo strenuamente il proprio spazio vitale che si concentra sul materasso in cui ciascuno dorme sospettando che quello dell’altro nasconda segreti inconfessabili. La regia di Gianni Di Nardo esaspera l’asfissia dello spazio chiuso con una scenografia minimalista che si limita a suggerire graficamente dei varchi resi invalicabili dall’incapacità dei personaggi di risolvere le loro vite. Le luci di Luca Aquino contribuiscono sapientemente a raccontarci l’universo claustrofobico nel quale i due personaggi sono precipitati.
Alfonso Grassi restituisce a Pacebbene la sbracatezza del personaggio con una recitazione attenta e una mimica accurata mai tracimante anche quando la situazione assume i toni della farsa. Alchemico l’equilibrio che si crea con l’interpretazione di Paolo Capozzo che dà al suo Cirillo i toni misurati e taglienti del cinico e sprezzante con una performance in cui pause ed espressioni del viso sono misuratissime quanto straordinariamente efficaci. L’intesa tra i due attori è perfetta e gioca a mettere in luce gradualmente le zone grige di un testo agrodolce in cui dramma e commedia si mescolano di continuo. Grassi si
conferma attore capace di spaziare tra Eduardo e Checov. Capozzo ha alle spalle una lunga attività anche di docenza e di gestione, insieme a Di Nardo, del Teatro 99Posti, una realtà più che ventennale di produzione e circolazione di teatro d’autore. Lo spettacolo ha aperto l’11 novembre2023 la rassegna teatrale organizzata da MU/TE Il silenzio creativo; le ragioni per restare presso il teatro Colosseo di Baiano. Le ragioni per restare e valorizzare il nostro territorio passano anche indubbiamente attraverso una produzione di grande valenza artistica e culturale.