Pensando di cogliere di tutto, si perse in mille rivoli artificiali, e gli anni passarono. Giorni vuoti da riempire, danzavano dondolonti fuori dalla finestra perdendosi nella pioggia. Automatismi ripetitivi, cellule senza anima, qualche bottiglia sparsa, tracannare per dimenticare, (dimenticarsi?). Inghiottito dalle fibre virtuali non si riconobbe più, fu un attimo a cui non seppe dare un nome, solo un senso di alienante solitudine ma continuò la corsa, baldanzoso e ignaro. Lamine d’acciaio balzavano sulla strada, fazzoletti bianchi di volti anonimi, sotto un cielo plumbeo. Gli occhi umidi riflettevano la luce accecante del dispositivo, e i muri parevano crollare, dispersi tra i suoni assordanti e voci automatiche, registri di un vocabolario che stava nascendo e che pochi conoscevano. Cosa ne sarà della vita e della morte se tutto è fagocitato nel giro di poche ore, il tempo sacrificato a un dio impietoso, recalcitrante al pianto o a un dolore che non può attendere.
È sera, il giorno se ne va e domani l’orgoglio lascerà qualche pietra sulla strada per non essere dimenticato. Notte profanata da voci stridule, mendicanti in giro per la città vuota, fra i vicoli, a cercare qualche scarto di ristorante, per continuare a vivere e gira la ruota del destino negli occhi umidi riflessi da un grande insegna pubblicitaria luminosa. Qualche cane si avvicenda nel buio, a testa bassa, cogliendo il senso del nulla che avvolge le finestre addormentate.
I volontari con un pasto caldo e una carezza a lenire il dolore dei clochard mentre il primo treno del giorno si avvia, scorto in lontananza, nostalgia e speranza incrostazioni dell’anima nella battaglia del giorno. Semmai la sera tornasse a risplendere, un sogno catapulta fra i bar di di una antica e gloriosa città dove labbra rosse e alcol svaniscono come fumo nello smog e un bacio furtivo sfiora appena dopo un bicchiere di whisky, i sensi distesi e l’amore che esplode tra risate e tendine fumè, il richiamo dei colori di una alba invernale.
Quanto dista il giorno dalla notte, vite in metamorfosi, cravatte slegate e tacchi a spillo nel chiarore nebuloso di un sigaro cubano, chiacchierando con la donna mulatta, la dea di nome Francisca, tenebre e sensualità, ardore di corpi che si annusano mentre l’ennesimo drink viene versato nel fiume impetuoso degli eventi. L’uomo si svegliò, accese una sigaretta pensando al suo passato. Sul marciapiede opposto al suo, rivide la conturbante dea che con occhi vispi e scintillanti lo salutava, mentre si avviava al suo destino.
GIORNI [Domenico Setola]
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