Così vado. Ci vado e mentre aspetto penso alla fortuna di non aver zappato la terra come mio padre, alla tosse che lo schianta di sera, agli occhi rossi di mia madre curva sui lavori di cucito che sono spariti all’improvviso, quando nessuno ha più aggiustato, rammendato. Alla follia collettiva che ci ha preso tutti: buttare, comprare, buttare ancora, ricomprare.
Non sarei emigrato. L’America che mi aspettava dopo il diploma, l’America era qua. Perché, come diceva mia nonna, se si chiude una porta si apre un portone. Ci vado, e so che a vent’anni, da queste parti, è una fortuna. Ci vado, e metto a punto nella mia testa la telefonata con mia sorella che mi aspetta a Detroit, aspetta che mi diplomi e che la raggiunga. Non sarà facile, ma lei non c’era quando qui ha tremato. Lei non l’ha vista la polvere, non ha visto la paura.
E mentre ci vado non so, non posso sapere che polvere e paura avrei respirato per vent’anni a venire. La vita se ne infischia di quello che abbiamo in testa, ci porta dove vuole.
Mi aspetta davanti alla stazione. Fuma. Mi saluta con un cenno e mi offre una sigaretta. Anche mio padre saluta così, prima un cenno, un gesto e poi le parole. È un mondo che non esiste più, tagliato in due. Perfino nel salutare donne e uomini sono diversi. Prendo la sigaretta da un pacchetto di Nazionali martoriato. E torno a casa pensando alla fortuna di non dover zappare la terra, di non dover partire come mia sorella.
La polvere è blu, perfino bella. Che sarà mai? Dimmi dove non si respira polvere. Ma questa è blu. Ci scherziamo. Siamo in cinque e lavoriamo per un fabbrica che non esiste ancora. C’è solo un capannone che serve da spogliatoio e c’è un imprenditore che ha bisogno di ragazzi svegli. Ci hanno scelti perché ci hanno visti lavorare nei giorni dell’emergenza. Siamo partiti d’impulso per le zone dell’epicentro. I primi tempi abbiamo scavato come gli altri perfino con le mani. Poi sono arrivati i prefabbricati: dodici, quattordici ore al giorno a mangiarci la fatica. La gente faceva il tifo per noi, ci portavano da bere, ci benedicevano e ci incoraggiavano. E’ durato un anno con i prefabbricati. L’azienda del Nord che ci aveva assunti sul campo non ci ha dimenticati ed è stata una sorpresa abituati come siamo all’idea che il lavoro sia una questione di amicizia, di parentele e anticamere. Questi, invece, ragionano in un altro modo: ti osservano e se gli piaci ti prendono, un’altra mentalità. Sono stati loro a segnalarci. Chi te li dà un milione e duecentomila al mese senza doverti nemmeno spostare? Da queste parti, di questi tempi? Un milione a due al mese significa che posso stare qui. Io, questa terra la odiavo. Ho cercato di spiegarlo a mia sorella. La odiavo come la odiava lei. Ma adesso non ce la faccio. Non posso partire da quest’inferno di case distrutte, non posso mentre si comincia a ricostruire. Un milione e duecento al mese significa tanto, magari anche l’università. Così accetto. Lui, l’imprenditore, è uno ‘ nzisto, è venuto fuori dal niente, e ha fatto il colpo del secolo: un contratto con le ferrovie dello stato.
Non sappiamo niente di come si smonta una carrozza ferroviaria, tanto meno di come poi si debba rimontare. Sono pezzi unici, tutti fatti a mano, è questione di millimetri, a volte, e se smonti rischi poi che ti rimanga a terra. Insomma, il metodo lo abbiamo trovato noi e poi l’abbiamo insegnato agli altri. Scoibentavamo a cielo aperto, all’interno della stazione, mentre la gente ci guardava aspettando il treno. Quanto fossimo svegli l’abbiamo saputo dopo. È venuto fuori dalle inchieste, dai processi: su al Nord le grandi officine si erano rifiutate, avevano capito subito di che si trattava. A Torino, a Firenze, a Genova, tutti hanno detto no grazie. Ma il lavoro andava fatto, bisognava togliere quella merda dai treni. C’era bisogno, altro che di tipi svegli, di fessi, di disperati. Allora te lo spieghi perché l’appalto lo hanno dato a lui, l’ingegnere, che pure la laurea si era comprato. Te lo spieghi perché quelli erano anni strani, bisognava esserci per capirlo. Dalla disperazione all’euforia non è che ci voglia molto, era tutta una corsa a ricostruire, a riprenderci non solo la vita, ma a correre per acchiappare quello che gli altri avevano già: sviluppo, lavoro, fabbriche. Sono cose che, se le vuoi, te le prendi e basta quando capitano. E non è detto che ricapitino. L’ingegnere era uno di qua, uno di noi. E pure la classe dirigente, i politici che contavano, il Clan degli Avellinesi.
Il crocidolite, quello blu, è il più pericoloso. Prende il volo, può fare chilometri come se fosse polline. Lo respiravamo noi, ma pure gli altri. Lo abbiamo respirato tutti, allegramente, perché la fabbrica era in mezzo alle case, perché le scorie le ammassavamo sul piazzale, tonnellate e tonnellate di veleno che nessuno voleva. Quando abbiamo cominciato non avevamo nemmeno i caschi, gli ispettori delle ferrovie si facevano vedere solo al momento della consegna delle vetture, finita la scoibentazione, per il resto non c’erano mai.
Io, ormai, avevo capito. Lo sapevano pure quelli che non parlavano, che avevano paura perfino dei sindacati, di chiedere il minimo. Fa più paura il mutuo. Se la notte non dormi, non è perché pensi che ti verrà il tumore. La malattia, come dire, è già in conto. È come pensare di morire, diventi fatalista. Se non dormi la notte è per le rate, per i figli da crescere, da mandare a scuola, non per quello che può succedere, ma per quello che c’è già. Allora tiri avanti. C’è voluta una battaglia perché ottenessimo, almeno, di bagnarlo. Non volevano perché l’acqua può danneggiare le vetture. Nel frattempo la fabbrica è cresciuta. Eravamo in trecentocinquanta. Una cosa enorme. In due giorni si smontavano i pannelli e la polvere ti arrivava in faccia senza riparo, mischiata ai residui di carbone e a tutte le altre schifezze di cui nemmeno ricordo il nome. Solo mascherine di carta, all’inizio. I caschi sono arrivati dopo e comunque non ti proteggono dalla nebbia che si forma. Otto ore al giorno nella nebbia e dopo ce la portavamo a casa, sulla pelle, sui vestiti, sulle mani. La mangiavamo insieme al pane nella pausa pranzo.
Amianto, oggi so anche questo, è una parola che viene dal greco. Significa che non brucia. Crocidolite, invece, vuol dire fiocco di lana. Asbestosi è quello che ho io. Non respiro, morirò tossendo.
Lui, l’ingegnere, intanto, era diventato il presidente. Allo stadio arrivava in elicottero. Chi se la ricordava una squadra in serie A? Era uno che, avrebbe detto mia nonna, parlava come mangiava, senza tanti giri. Una pacca sulle spalle, una gratifica, un biglietto gratis per la partita della domenica, non riuscivi mai a dimenticare che era venuto dal basso, era questa la sua forza. Ad un certo punto è cominciato un via vai, la gente arrivava e se ne andava. Non sopportava i ritmi, non sopportava la polvere, la nebbia. In una situazione del genere è difficile pure organizzare uno sciopero. I sindacati erano fumo negli occhi, non ci voleva parlare. Parlava con noi e ci chiamava guaglioni. Nel frattempo con le ferrovie era nato un grande amore. Si era inventato il TNT, tessuto non tessuto, per i treni notturni. Lenzuola d’oro le hanno chiamate i giornali, vendute a prezzi gonfiati. Affari da far girare la testa, soldi che nemmeno immaginiamo mentre si disperdono nei mille rivoli delle mazzette.
Fa più male la coca cola. La coca cola, guaglioni, brucia lo stomaco, vedete che vi fa la coca cola e la date da bere ai vostri figli. E molti abbassavano la testa, perché è vero, compravamo la coca cola e la davamo da bere ai nostri figli. Per me, da bambino, era stata un lusso. E magari ne era convinto sul serio: la coca cola non ci ha sfamati. È stata la fabbrica a darci da mangiare. La fabbrica ci ha dato il lavoro e la dignità. La fabbrica, la sicurezza del fine mese, il mutuo e le tasse universitarie, i matrimoni delle nostre figlie curve sui libri quando la sera tornavamo a casa, circondati da questo verde che, pensavamo, ci avrebbe difeso almeno dalle malattie dei polmoni che fiaccano il cuore, dalla morte precoce del respiro che hanno i vecchi. È stata la fabbrica. Le ferrovie dello Stato. Lo Stato.