Le donne italiane ricominceranno a dare la vita quando per farla venire al mondo e crescerla non sarà più necessario amputare la propria.
Potrebbe cominciare e finire così una sintesi efficace del testo postumo di Michela Murgia Dare la vita, un libro che ci interroga tutte e tutti sulla necessità di riconsiderare determinati assetti sociali, soprattutto quelli familiari. Troppo spesso negli ultimi anni è stato detto in maniera trasversale, da politici di destra o progressisti, che l’Italia non è pronta a rimettere in discussione determinate leggi, a riconsiderare la famiglia fuori dai dictat del cattolicesimo. È un tempo triste quello in cui si accetta che riconoscere i diritti civili a tutte e a tutti è cosa superflua. Uno sguardo alla storia neanche troppo lontana ci dice che atteggiamenti del genere sono presaghi di derive autoritarie, sempre. Non è surreale credere che Michela Murgia mirasse proprio ad un risveglio delle coscienze attraverso il dibattito pubblico quando negli ultimi, dolorosi mesi della sua esistenza ha dato alle stampe il suo libro più importante Dare la vita. Importante per noi, più che per lei.
Ad un passo dalla morte, la Murgia ci inchioda alla vita, ci svela la vera natura di quei legami di sangue su cui si fonda tutto il nostro costrutto morale e sociale e che spesso sono mortali, non fecondi come pretendono di essere. Spesso sono legami che ammazzano invece di nutrire e crescere.
Come i vecchi di un paese remoto, anche lei ci pone la domanda che tutte e tutti ci siamo sentiti/e fare almeno una volta: “A chi appartieni?”, capovolgendone però il senso, dando a noi un’altra chiave di lettura e gli strumenti per rispondere in maniera definitiva “Io appartengo a me stessa!”
Scrive la Murgia: “Io non sapevo cosa fosse la vocazione a essere me” e chi di noi lo sa? E chi di noi se lo chiede davvero quando decide cosa fare dei suoi giorni? Ma soprattutto quanto costa, una volta riconosciuta la propria vocazione umana, il suo perseguimento? Questa possibilità a realizzare la propria vocazione umana è riconosciuta a tutte e a tutti?
Da questi interrogativi prende avvio una riflessione sull’esperienza familiare della scrittrice, sul suo essere queer e sulla necessità di capire davvero cosa voglia dire queerness. Non esiste un termine italiano che sia in grado di riprodurre i significati di queerness […] se dovessi proporne una direi che è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (1)
Mi è sempre piaciuto giocare con le parole, è il mio modo di amarle, di ringraziare la lingua per le infinite possibilità di esistere che mi regala, perciò mi ha colpito molto l’assonanza del termine queer con il verbo latino quaero, che significa chiedere, cercare. Quaero è alla radice del termine quesito, domanda, e mi è sembrato che le pagine di Michela Murgia in realtà fossero una grande domanda a noi tutte/i. L’autrice ci chiede di guardare oltre le nostre convinzioni, oltre le norme che spesso rispettiamo in modo passivo. Queer è la domanda che la vocazione a essere libere/i di alcuni pone a quella parte di società civile che, pur sentendosi nel giusto, spesso preferisce la comodità di certezze acquisite, piuttosto che la meraviglia di nuove prospettive. In un’epoca assuefatta alle risposte facili, immediatamente reperibili, abbiamo perso il gusto e l’interesse per la ricerca e a volte guardiamo con un certo fastidio, quando non con inquietudine e angoscia, chi sceglie diversamente e fa della curiosità una regola, l’unica ammissibile.
A chi amo, a chi scelgo, voglio offrire una sola rassicurazione: quella di non dover mai fingere di non essere chi è. (2)
La famiglia tradizionale spesso è invece il primo luogo dove si finge per non dover rinunciare all’amore di qualcuno, il primo luogo dove si vive la relazione come tirannia. In un recente saggio dal titolo eloquente, Sii te stesso a modo mio, lo psicoterapeuta Lancini spiega in modo molto chiaro i ricatti cui sottoponiamo gli adolescenti dietro la maschera della libertà, della condivisione, dell’aiuto garantito per dovere genitoriale.
Leggendo le pagine testamento di Michela Murgia ci si rende tristemente conto che il totem della famiglia è il vero nemico da abbattere se vogliamo una società libera dalle logiche del patriarcato. I legami di sangue non sono più autentici, ma più condizionanti. Bisogna perciò fare spazio a forme diverse di relazione, forme che aiutino anche la famiglia tradizionale a evolversi, senza soccombere. La vera scoperta è che aprirci a possibilità diverse rinnova anche i legami che ci sono capitati in sorte, che non abbiamo scelto. La difficoltà nello scardinare questa coriacea visione delle strutture familiari non è cosa nuova. Già un’altra donna, nel suo libro di memorie, ne parla come di una lotta necessaria per la parte progressista del paese. Rossana Rossanda ne La ragazza del secolo scorso scrive: Tuoni e fulmini, e la damnatio memoriae, caddero invece sul convegno in tema di famiglia. Il gruppo dirigente spedì Emilio Sereni, Nilde Iotti contro noi distruttori, anzi distruttrici- eravamo soprattutto Luciana Castellina e io- della famiglia come cellula di base della società. Non era un apparato ideologico dello stato, era la griglia dalla quale tutti gli apparati passavano. Per la sinistra del dopoguerra era già tanto aver messo le basi per una ripulitura del codice di famiglia e aver dato il voto alle donne. […] La famiglia continuava a galleggiare eterna nella storia come cellula base della proprietà e del dominio patriarcale. Era stata aggiornata dal capitale da unità di produzione e riproduzione a unità di riproduzione e consumo, meccanismo della dipendenza femminile. (3)
Erano gli anni sessanta, ma la questione sembra aver attraversato intatta i decenni per riproporsi oggi più intensa e carica di conseguenze. In un paese dove il dibattito politico è appiattito su temi di grande rilevanza come uno scherzo telefonico fatto alla prima premier donna d’Italia, un’altra donna non più in vita ci chiede serietà e dignità, ponendo la sua stessa esperienza umana a emblema di una diversità possibile e auspicabile. Bisogna costruire una nuova dimensione comunitaria che accolga tutta le complessità del tempo che viviamo, non come un compromesso ma come un’opportunità
Dare la vita è il segno tangibile e anche doloroso che non tutto deve essere banalmente ridotto in caciara, che anche in Italia, stato europeo tra i più retrogradi secondo diversi parametri, è possibile reclamare e attuare un dibattito pubblico su tematiche civili importanti.
L’Italia ha un debito storico e politico importante nei confronti delle donne, debito che è tempo di saldare riconoscendo che le leggi più importanti da un punto di vista civile si sono fatte sulla pelle delle donne, penso alla legge sul divorzio, a quella sul delitto d’onore o a quella ancora così discussa sull’aborto.
Il libro di Michela Murgia fa però di più, va oltre la questione di genere così come posta finora, guarda al futuro e lo fa con una razionale e impressionante consapevolezza, la stessa che sembra fare difetto alla gran parte della classe politica attuale. Non c’è questione di genere da argomentare se non si riconosce il diritto sacrosanto a non sentirsi parte di alcun genere. Il fatto di non sentirsi coinvolte/i in prima persona in questa o in altre riflessioni dall’autrice, la maternità surrogata, l’affido, la famiglia omogenitoriale, non ci assolve dalla necessità di chiedere al nostro paese di fare un nuovo passo sul cammino, lento, verso la civiltà.
La storia siamo, eravamo e saremo noi, nessuno/a si senta escluso/a.
1 – Dare la vita, M. Murgia, ed. Rizzoli, Padova 2024, pp.28-29.
2 – Dare la vita, M. Murgia, ed. Rizzoli, Padova 2024, p.46.
3 – R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, ed Einaudi, Torino 2020, p.271.