“Né rosso né nero” è un libro potente, è un libro che insegna che ci sono momenti nella vita in cui “tacere diventa una colpa e parlare un obbligo”. Esistono tanti modi per manifestare il proprio dissenso, per dire no. Quando in gioco c’è la propria dignità, la propria coscienza e la propria libertà, scegliere da che parte stare diventa un imperativo morale.
Raccontare la vicenda umana e calcistica di Josef Bican, uno dei più grandi bomber della storia del calcio che seppe dire “no” sia al nazismo che al comunismo, come fa Angelo Amato de Serpis nel suo meraviglioso romanzo, significa indagare il cuore nero del Novecento, quel periodo oscuro della storia in cui l’umanità perse se stessa.
Una riflessione complessa, cruenta, a tratti devastante che lascia sgomento perchè indaga e scende a fondo nell’abisso del male assoluto, impunibile e imperdonabile.
Ed è qui che il libro di Angelo Amato de Serpis compie il miracolo della narrazione: riuscire a raccontare l’inenarrabile e l’imponderabile. L’autore sceglie una storia semplice nella sua grandiosità, la strappa all’oblio, la allatta, prova a immaginare cosa il grande campione può aver pensato quando, di fronte ai potenti del suo tempo, scelse di restare dalla parte della sua coscienza di uomo libero e coerente, rinunciando a facili glorie, denaro, fama planetaria e a una carriera che avrebbe potuto traghettarlo sulla vetta del mondo. Quanto coraggio occorre per indignarsi? Quanta forza occorre per dire “io non ci sto”? Beh davvero tanta se il periodo in cui vivi è quello dei regimi totalitari, quando tacere e omologarsi all’idea dominante è tutto ciò che viene richiesto di fare.
Lo sport ha avuto un ruolo centrale nelle ideologie totalitarie specie negli anni che vanno dalle Olimpiadi di Berlino del 1936 a quelle di Londra del 1948, un periodo che coincise con una forte e inedita politicizzazione dello sport: l’esaltazione del corpo degli atleti e le discipline sportive diventarono sinonimo di inquadramento delle popolazioni, strumento di quella propaganda ideologica che ben si inseriva nei principi del razzismo hitleriano e dell’omologazione sociale del comunismo.
Ma se lo sport fu in quei tempi bui uno strumento politico e di propaganda, di tortura e di discriminazione, non bisogna dimenticare che fu anche un modo per resistere, per opporsi ai regimi, addirittura per salvare vite.
Ci sono stati atleti di regime, atleti di cui nazismo e fascismo hanno usato l’immagine per esaltare la forza, la virilità e l’identità collettiva delle loro ideologie razziali. E’ il caso del pugile Primo Carnera, soprannominato “la Montagna che cammina”, campione mondiale dei pesi massimi, vera icona del fascismo ma la cui foto al tappeto per ko al Madison Square Garden di New York nel match del 1934 in cui perse il titolo, non doveva mai e poi mai essere pubblicata sui giornali, per ordine dello stesso Mussolini, perché questo avrebbe danneggiato proprio quell’immagine di uomo forte così cara al duce.
Ma poi ci sono storie che raccontano come lo sport sia diventato in quel periodo una forma di esclusione e discriminazione nei confronti di quegli atleti ritenuti nemici o indesiderati, in particolare gli oppositori politici e gli ebrei. Come nel caso della vicenda drammatica di Gretel Bergmann, campionessa tedesca di salto in alto, prima espulsa dal proprio club sportivo nel 1933 in quanto ebrea e costretta ad emigrare all’estero, poi richiamata in Germania alla vigilia delle Olimpiadi di Berlino per calmare le minacce di boicottaggio dei Giochi. Gretel ottenne risultati eccellenti alla preparazione pre-olimpica, nonostante fosse stata costretta ad allenarsi nel più totale isolamento, mettendo a segno, a un mese dall’inizio dei giochi, il record nazionale di salto in alto. Alla fine non fu ammessa a competere nella formazione nazionale tedesca per evitare il rischio che un’ebrea potesse salire sul podio dei vincitori.
Lo sport fu in quei durissimi anni anche strumento di tortura all’interno dei lager dove spesso le SS o i Kapò obbligavano dei prigionieri, ex sportivi di fama riconosciuta, a partecipare a combattimenti o partite da gioco in condizioni disumane e in cambio del diritto alla vita, come nel caso di Johann Trollmann, pugile tedesco, campione nazionale dei pesi medio massimi, soprannominato Gipsy. Finì, proprio per le sue origini sinti, prima nel campo di concentramento di Neuengamme dove fu più volte fu costretto a combattere in cambio di qualche razione di cibo in più, e poi trasferito in un sottocampo a Wittemberge. Qui il kapò, Emil Cornelius, un pugile dilettante, lo riconobbe e si impuntò per combattere contro l’ex campione di Germania; l’incontro fu vinto da Trollmann, ma la vittoria gli costò la vita poiché pochi giorni dopo, il 31 marzo 1944, Cornelius lo assassinò.
Ma lo sport non fu solo uno strumento di propaganda razziale, di tortura o di discriminazione, fu anche una forma di disobbedienza civile. Come ci racconta la storia del campione di salto in lungo tedesco Carl Ludwig «Luz» LONG. Ai Giochi Olimpici di Berlino del 1936 ha 22 anni, esattamente come il suo temibile avversario, l’afro-americano Jesse Owens. Sostenuto dal regime come campione destinato alla vittoria, viene invece battuto da Owens che si aggiudicherà ben 4 medaglie d’oro. Il giovane Long non si piega alla volontà razzista del suo Paese che vede i neri come sub-umani e ha il coraggio di acclamare con lealtà il vincitore e di alzargli il braccio davanti a tutti in segno di vittoria, fino a stringere con Owens un’amicizia che durerà per tutta la vita. Una scelta imperdonabile agli occhi di Hitler che non tarderà a vendicarsi per quell’affronto. Allo scoppio della guerra infatti, Long verrà escluso dalle liste di sportivi esentati dalle missioni più pericolose e inviato a combattere in Italia dove morirà in battaglia, il 14 luglio 1943 nei pressi di Gela, in Sicilia.
E poi c’è una storia di resistenza e dignità da far venire i brividi, quella che si consuma a Kiev nell’estate del 1942 quando la città è in mano ai nazisti da un anno e miseria e fame attanagliano la popolazione. La Dinamo di Kiev, ormai ridotta ad un lontano ricordo di quella che era stata la squadra di calcio più forte del Paese, viene sfidata dalla compagine delle Forze Armate tedesche, la rappresentativa dei nazisti. E’ una partita che la Dinamo è condannata a perdere ma che diventa una straordinaria occasione di riscatto e resistenza. Sul campo avvenne l’impensabile: i kieviti vinsero, nonostante le minacce di morte, nonostante l’arbitraggio schierato dalla parte dei tedeschi, nonostante la consapevolezza che se avessero umiliato sul campo i nazisti, sarebbero finiti tutti nel burrone di Babj Jar, come di fatto accadde. Sì, Babj Jar, il luogo alle porte di Kiev dove i nazisti assassinarono circa 100.000 persone tra ebrei, oppositori politici, sinti, rom e ucraini anche solo rei di aver rubato un pezzo di pane. Quel burrone divenne anche la tomba dei giocatori della Dinamo che rifiutarono di farsi battere dalla squadra delle Forze Armate tedesche.
E infine non si può dimenticare che lo sport fu anche uno strumento attraverso il quale fu possibile salvare vite, come ci racconta la storia di Gino Bartali, il campione di ciclismo che mise in gioco la propria vita per salvare quella di ebrei perseguitati dai nazifascisti. Percorrendo i 170 km che separano Assisi da Firenze, fingeva di allenarsi mentre nella canna della sua bicicletta e sotto la sella nascondeva documenti falsi che servirono per la fuga di 800 ebrei. Motivo per cui nel 2013 lo Yad Vashem gli conferirà il titolo di Giusto tra le Nazioni.
Ed è dunque esattamente in questo contesto, quello in cui si consuma la violenza e la sopraffazione dei regimi totalitari durante e dopo la Seconda guerra mondiale, che Angelo Amato de Serpis colloca la narrazione della vicenda umana e professionale di Bican. Così come Bartali, i giocatori della Dinamo, Johann Trollmann, Luz Long e Jessie Owens, Gretel Bergmann che fecero dello sport una estrema forma di resistenza, riscatto, dignità e salvezza, anche il campione cecoslovacco scelse di non scendere a compromessi con la Storia e mise a rischio la sua vita per difendere la propria libertà.