Maine e California: i due poli letterario-territoriali della Nazione
Il Maine è rimasto a lungo un territorio di frontiera – il trattato Webster-Ashburton con le colonie britanniche che saranno poi il Canada fu firmato il 9 agosto 1842 – ed è un luogo in cui tutto appare difficile, a partire dal clima, dove però la “casa” non può che essere piena di luce, non certo come quelle di New York come conferma Olive Kitteridge: «Avrebbe potuto mettersi a piangere di fronte al buio, all’odore di peli di cane vecchi e di biancheria sporca, a un’amarezza che sembrava emanare dalle pareti. La casa che lei e Henry avevano costruito per Chris nel Maine era bellissima, piena di luce, con ampie finestre per godere la vista dei prati dei gigli e degli alberi»(1).
I pescatori vivono in luoghi come Sabattus, un paese di cinquemila abitanti nella contea di Androscoggin, il cui nome pare derivi da quello di un capo indiano. Vi prosperano sette cristiane come gli snake-handlers; una comunità di origine pentecostale al centro delle cui pratiche sta la manipolazione di serpenti. Soprattutto ospita cittadini che non appartengono alla mitologia wasp. I franco-canadesi cattolici del Maine sono un’etnia che vive in un mondo a parte, con esigenze diverse da quelle dei veri americani: «La chiesa del Sacro Cuore, o Sacré Coeur, come la chiamava la maggioranza dei cattolici franco-canadesi, necessitava di un prete francofono»(2).
Nel tempo antico, ossia prima della guerra di secessione, quando l’idea del trasferimento era abbellita dalla inossidabile convinzione di combattere l’ingiustizia, dal Maine si partiva verso gli altri Stati dell’Unione: «A Gilead mio padre esercitava il ministero. Suo padre era nato nel Maine ed era andato nel Kansas nel terzo decennio dell’Ottocento … per rendersi utile alla causa dell’abolizione della schiavitù»(3).
Probabilmente la verità è che ci si trasferiva nel Kansas, perché nel Maine c’era la fame, nonostante l’idea di opulenza che la Costa Est suscita nel resto della nazione: «Una volta mio nonno disse [a mia madre] che se non si poteva leggere con i piedi freddi non ci sarebbe stata una sola anima colta in tutto lo stato del Maine. Lei gli disse: nel Maine nessuno ha granché da mangiare, quindi le cose si equilibrano»(4).
Il Maine è anche il posto di villeggiatura di ricche, antiche famiglie newyorchesi come i Barbour, la cui memoria risale alla metà del Settecento. Forse, in proporzione, c’è maggiore consapevolezza della propria ascendenza nella costa dell’Atlantico occidentale che in quella orientale: «Alla signora Barbour interessava parlare soprattutto dei mobili di famiglia, alcuni dei quali erano stati acquistati da Israel Sack negli anni Quaranta, ma che, perlopiù, venivano tramandati di generazione in generazione dall’epoca coloniale: un set di sedie e una commode di mogano-Queen Anne, Salem Massachussettes, che appartenevano alla famiglia della madre dal 1760»(5).
Il Maine vive male la colonizzazione turistica dei ricchi vicini del Massachussetts: «Le targhe erano sempre del Massachusetts. Gli eserciti di vacanzieri che da quello Stato si riversavano ogni estate nel Maine venivano chiamati, di norma “massa di stronzi”»(6) che pure potrebbero rimanere nella loro Martha’s Vineyard: «Sì era quello il segreto desiderio delle Ciondoline e dei loro genitori: abitare all’Est anziché nel Midwest, adeguare il modo di vestire e la parlata stridula alle estati a Martha’s Vineyard, dire torniamo invece di andiamo a est, come se il tempo che trascorrevano nel Michigan rappresentasse soltanto un breve soggiorno lontano da casa»(7).
L’isola rifugio per decenni del clan Kennedy fa sentire quasi vicina al Maine quello stato “altro” che è la California: «A Martha’s Vineyard sembravano tutti ricchi, magri e belli. Quando ne aveva parlato con il vecchio amico Peter, questi gli aveva detto di provare ad andare a vivere a Los Angeles per un po’. Laggiù, sosteneva, la bruttezza veniva rapidamente e sistematicamente eliminata dalla specie umana»(8).
Quando la/il protagonista di Middlesex, Calliope ormai Cal, fugge verso ovest materializza ciò che è la California nell’immaginario degli Stati Uniti: un’attrazione irresistibile. La gente molla tutto all’improvviso e vi si trasferisce; ed è sempre stato così fin da prima della guerra di secessione: «[Counsel] voleva andare in Alabama e magari fino in California. Non sapeva niente della California, se non che era lontana dal North Carolina»(9). Ed è inspiegabile; Olive Kitteridge non si capacita che la California non sia un posto abitato da gente come noi: «Come fa la gente in California ad avere problemi ai piedi? Non vanno sempre in macchina? … Gli abitanti di New York prendono molto sul serio i problemi ai piedi»(10).
La California è proteiforme per il resto della nazione per la sola esistenza di una città come San Francisco: «Dopo la seconda guerra mondiale San Francisco fu il porto principale di approdo per i marinai che tornavano dal Pacifico. In mare molti di quei marinai avevano preso abitudini amatorie che sulla terraferma venivano disapprovate. Perciò quei marinai si fermarono a San Francisco sempre più numerosi, attraendo altra gente, fino a quando la città divenne la capitale dei gay, la Hauptstadt omosessuale»(11).
San Francisco è una città dove i giovani di ieri non interessano più: sono roba vecchia. Esistono solo i giovani del presente: «Se Dio vuole è quasi il 1980. Gli hippy stanno invecchiando, si sono bruciati il cervello con gli acidi e adesso a San Francisco li vedi chiedere l’elemosina a ogni angolo di strada. Hanno i capelli tutti annodati e i piedi nudi con la pelle spessa e grigia come una suola. Ci fanno schifo»(12).
Il resto del paese guarda attonito verso San Francisco, la città della corsa all’oro più famosa del pianeta, perché non la vede: è separata da un muro di nebbia: «Non ho mai visto San Francisco così dall’alto: è di un nero blu morbido, con le luci colorate e la nebbia che sembra fumo grigio. I lunghi moli si protendono nella baia piatta e scura»(13).
Forse, però, la verità è che dietro la nebbia c’è solo il nulla: «Come Bennie anche lei [Stephanie] veniva dal nulla, ma da un nulla di tipo diverso: quello di lui era il nulla urbano di Daly City [San Mateo County] California, dove i suoi genitori avevano lavorato fino alla totale assenza mentre una nonna esausta cresceva Bennie e le sue quattro sorelle»; (14) quindi non sembra esserci nessuna possibilità di realizzare in California la promessa del sogno americano, perché in questo Stato il presente è debordante: non c’è passato, non c’è futuro: «Ricordate la grande promessa dell’America! La promessa dell’immigrato! La promessa del Sogno Americano! La promessa che i cittadini di questo paese tenevano ben cara e che presto torneranno ad amare; che l’America è una terra di libertà e indipendenza, una terra di patrioti che si sono sempre schierati dalla parte dei più deboli, ovunque si trovassero nel mondo, una terra di eroi che non si sottrarranno mai all’impegno di aiutare gli amici e colpire duramente i nemici, una terra pronta ad accogliere le persone»(15).
L’immigrato e la vestale dell’identità americana
L’immigrato vuole che sia mantenuta la promessa del sogno americano, ma le tradizioni di questa nazione sono incomprensibili. Diventare statunitense è per iniziati. «E comunque per quanto li conoscessimo bene certe cose non le avremmo sapute mai anche dopo anni di intimità forzata e volontaria: per esempio come fare la salsa di mirtilli rossi, come lanciare una palla da football, per non parlare dei principi che regolavano le società segrete come le confraternite studentesche, pronte ad occupare almeno in apparenza solo chi avrebbe potuto far parte della Gioventù Hitleriana»(16).
Il paragone con la Hitlerjugend evoca una natura demoniaca che il luogo America sembra possedere fin dal suo tempo antico, prima della guerra di secessione: «Jebediah le disse che ormai la Virginia per lui era uno stato diabolico, e non voleva più averci niente a che fare. Se qui ci fosse l’oceano, disse, mi ci tufferei e andrei a nuoto fino a Baltimora, in modo da non dover camminare su questa maledetta terra della Virginia»(17).
L’anima della vera America è convinta che la sua fondazione sia avvenuta per volere divino:
«Immagino che il Dio di Calvino fosse francese, proprio come il mio è del Midwest, originario del New England» (18). Per questo il credo dell’immigrato nella Resurrezione non è quello che esiste nella vera cultura americana cui, quindi, è condannato a non appartenere: «È la domenica di Pasqua del 1959. Il fatto che la nostra religione segua il calendario giuliano ci ha lasciati ancora una volta fuori sincronismo con il vicinato. In piedi dietro la finestra a guardare, più di ogni cosa al mondo mio fratello desiderava credere in un Dio americano risorto il giorno giusto»(19). Ogni immigrato, prima o poi, si rende conto che chi e cosa fossero veramente quelli che arrivarono nel 1620 con la Mayflower gli rimarrà incomprensibile: «Di colpo l’America non era più il paese degli hamburger e delle macchine truccate, era la terra del Mayflower e di Plymouth Rock. Riguardava un evento di due minuti accaduto quattrocento anni prima e non tutto quello che era successo da allora in poi»(20). Dev’essere stato in quei due minuti che è stato plasmato il concetto del reclamare ciò che spetta a ciascun individuo: voler credere e far credere di essere arrivati in un mondo vuoto, con il necessario corollario della cancellazione delle tracce umane precedenti, per poi poter imporre il diritto di chi è arrivato prima su chi è arrivato dopo: «Devi reclamarla l’America, perché non sarà certo l’America a offrirsi a te. Se non reclami l’America, se non hai l’America nel cuore, l’America finirà per gettarti in un campo di concentramento, in una riserva o in una piantagione. Se non avrai reclamato per te l’America dove andrai?»(21).
Per appartenere all’America sembra allora non ci possa essere altra strada che fare proprio il codice della violenza: «Perché non te ne torni al tuo paese? Il mio paese è questo, rispose Lefty. E per dimostrarlo fece una cosa molto americana: allungò una mano sotto il banco e tirò fuori la pistola»(22).
Questo reclamare americano è una rilettura del discorso degli Ateniesi rivolto ai Meli, le cui parti in America altro non sono che il governo e i suoi cittadini, come spiega al figlio William Minty: «Scommetto che a scuola vi raccontano che questo è un Paese libero. Sì, sì. Tu però non ci credere. Hanno capito tutto, fidati, e hanno organizzato tutto. Chi dovrai sposare. Dove dovrai abitare. Quanto dovrai pagare di affitto. Quanto guadagnerai. Chi dovrà morire nelle loro guerre. Tutto insomma. E tu credi di avere voce in capitolo? Bè pensaci bene»(23).
Come gli Spartani anche gli americani hanno bisogno dei propri Iloti da cacciare: «L’antiamericanismo include in sé l’americanismo. Gli americani hanno bisogno degli anticamericani»(24).
L’attenzione allo standard americano come misura di comprensione dell’America è necessaria per i nemici degli Stati Uniti che predispongono una sorta di manuale per il contatto ravvicinato del terzo tipo con gli abitanti di questo strano Paese: «Il Dottor Song passò agli aspetti più pratici … Mai maltrattare un cane in America. Viene considerato un componente della famiglia e gli viene assegnato un nome, proprio come alle persone»(25); di cui il clou sono le goffe istruzioni per l’approccio alla donna americana: «Disse che … in America le donne potevano fumare liberamente e che non dovevano essere sgridate per questo»(26).
L’ossessione del maschio nemico per le donne americane è fomentata raccontando il paradiso ai vietnamiti: «[Gli Stati Uniti erano] una terra nella quale i seni delle donne non producevano solo latte, ma frappè, o almeno così gli era stato detto dai GI»(27). Con sottile perfidia si insinua che anche l’estremo nemico, il Caro Leader, alla fine, non desideri altro che possedere la dea madre: la donna americana: «Un’americana innamorata di me? Non sarebbe la più definitiva delle vittorie? Una bellissima nerboruta ragazza americana. Non sarebbe il massimo?»(28).
Il rispetto che portano alla loro donna diventa per gli Americani la metafora giustificatrice per obnubilare la loro politica estera: «Uhm, in America non picchiamo le donne … No. Gli americani preferiscono perseguitare paesi più piccoli che la pensano in modo diverso da loro»(29).
Insomma, grazie agli scrittori affiora la convinzione inconscia che il patentino di vero americano viene rilasciato dalla donna americana; vestale sacerdotessa di una potenza capace di annientare: «Guardandomi doveva essersi soffermata immediatamente sulla mia pelle gialla, sul taglio degli occhi e sulla cattiva fama di cui erano circondati i genitali degli uomini orientali, quei minuscoli apparati oggetto di diffamazione sulle pareti di tanti bagni pubblici. Potevo anche essere asiatico solo a metà, ma in America quando si trattava di razza non esistevano le mezze misure. O eri bianco o non lo eri. Pur essendo un americano in possesso di carta d’identità, patente di guida, tessera sanitaria e regolare permesso di soggiorno, Violet continuava a considerarmi uno straniero»(30).
L’appartenenza
Quanto la donna americana sia la vestale depositaria dell’appartenenza lo dimostrano le scrittrici quando ricordano la memoria della partecipazione alla guerra di secessione: «Si iscrissero alla Società della Guerra Civile (il bisnonno di Henry aveva combattuto a Gettysburgh, e avevano ancora la sua vecchia pistola nella credenza per dimostrarlo) e una volta al mese andavano a Belfast e si sedevano in cerchio ad ascoltare conferenze sulle battaglie, gli eroi eccetera»(31).
«[Il nonno di John Ames] era stato ferito a Wilson’s Creek, il giorno in cui era morto il generale Lyon»(32).
«Qualche anno fa capitarono in negozio delle foto di Mathew Brady, roba della Guerra civile, talmente raccapriccianti che faticammo a venderle. … In due giorni persero la vita ventiquattromila uomini a Shiloh, cinquantamila a Gettysburg. Colpa dei nuovi armamenti. Pallottole Minié e fucili a ripetizione, ecco perché il numero delle vittime fu così alto. In America si sono combattute guerre di trincea molto prima della Grande guerra. Tanta gente non lo sa»(33).
In Oscar Wao si scrive della probabile futura perdita di memoria dei giovani americani dei conflitti avvenuti a cavallo tra il XX e il XXI secolo: «Non sapevate che (noi Dominicani) siamo stati occupati due volte nel XX secolo? Non vi preoccupate, neppure i vostri figli si ricorderanno che gli Usa hanno occupato l’Iraq»(34), però la sensazione è che gli americani che si riconoscono nel Mayflower non scordano per nulla che qualsiasi immigrato dopo il 1865 ha compiuto un peccato imperdonabile: non ha combattuto la guerra civile; non si è schierato.
Quella contrapposizione territoriale ha stabilito i confini dell’identità che però sembrano continuare ad avere solo i wasp. Tutti gli avi degli altri, degli irlandesi, dei neri, degli indiani anche se parteciparono alla mattanza di Gettysburg restarono plebei; di quel campo di battaglia si ricordano solo i patrizi.
Il gruppo etnico irlandese partecipò alla guerra di secessione con circa duecentomila soldati, più o meno quanto quello afroamericano, ma con il tasso di diserzione più elevato di tutto l’esercito dell’Unione: il che significa che gli irlandesi si arruolarono per evitare la fame e non lo schiavismo legalizzato. Soprattutto, quando scoppiò la guerra civile, gli irlandesi erano appena arrivati per chi viveva da sempre nella Confederate States of America.
Nel mondo virginiano di Manchester County, dove una frangia di neri affrancati è proprietaria di schiavi neri, nel modo più duro e brutale possibile lo sceriffo Skiffington spiega cosa si intendeva con “vivere nel Sud degli Stati Uniti”: «Intendendo il Sud il mondo del diritto di proprietà sugli altri uomini»(35).
Nel documentario I’m not Your Negro James Baldwin si fece portavoce della reazione di “Harlem” sul fatto che gli irlandesi non avevano contribuito a costruire quella che era “casa” prima del loro arrivo commentando una sorta di profezia di Robert Kennedy, – non c’è motivo per non credere che nell’immediato futuro un nero non possa anche diventare presidente degli Stati Uniti -: «Dal punto di vista della gente di Harlem, Kennedy è qui solo da ieri. E adesso è già in viaggio verso la presidenza. Noi siamo qui da 400 anni e adesso lui ci dice che, forse, entro quarant’anni, se facciamo i bravi, uno di noi può diventare presidente»(36).
Il bianco senza il nero non esiste e viceversa, però questo esclude tutti gli altri: «Noi [vietnamiti] … rappresenteremo una minaccia alla santità e alla simmetria di un’America bianca e nera, la cui politica razziale fondata sul concetto di yin e yang non lasciava spazio per altri colori e in particolare per quei patetici piccoli gialli sempre pronti a rubare quattro monetine dal borsellino americano»(37).
L’esclusione dal binomio bianco/nero è ciò che scatena una asianamerican nel paragone rabbioso con quella emigrazione irlandese che pensa di avercela fatta: «Mi domandavo perché non avevo voglia di imparare il giapponese, perché non lo parlassi già, perché preferissi andare a Parigi, Istanbul e Barcellona anziché a Tokyo. Ma poi ho pensato chi se ne frega? Qualcuno ha mai chiesto a John Kennedy se parlasse gaelico, se fosse mai andato a Dublino, se mangiasse patate tutte le sere o se collezionasse quadri che raffiguravano gnomi e folletti? Perché allora pretendere solo da noi che non dimentichiamo la nostra cultura? Non è questa la mia cultura se è qui che sono nata?»(38).
In tutto questo frastagliato panorama spicca l’assenza dei nativi americani. Solo in The Known World compare il cherokee Oden Peoples, professionista del taglio delle orecchie e dei tendini dello schiavo fuggiasco Moses(39). Un mestiere in linea con il collezionista di scalpi dei film western.
I primi che hanno calcato la terra sono quelli che sono finiti in fondo alla base della piramide del multilevel marketing dell’appartenenza, in apparenza esclusi dal transfer continuo dove anche il penultimo può imporsi su qualcuno.
La St. Regis Mohawk Reservation degli Stati Uniti occupa un’area di cinquanta kmq adiacente alla Mohawk Nation at Akwesasne in Canada e i suoi residenti possono varcare a piacimento il confine internazionale. Nel film Frozen River (2008) gli indiani lucrano sulla tratta degli immigrati cinesi che attraversano il fiume San Lorenzo ghiacciato nascosti nel bagagliaio delle automobili.
Pertanto, se lo sfruttamento degli ultimi arrivati è la cifra dell’appartenenza americana si è davvero sicuri che anche i nativi non siano americani? Che sotto la base della prima non ci sia una speculare piramide rovesciata? Che questa sia la forza nascosta della Grande Nazione che rende i ciclici collassi funzionali a far ripartire il transfer più forte di prima in un eterno ritorno dell’uguale?
1- 2009: Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, Fazi editore, Roma, 2009, p. 289.
2- 2002: Il declino dell’impero Whiting (Empire Falls) di Richard Russo, Sonzogno editore, Milano, 2003, p. 72.
3- 2005: Gilead di Marilynne Robinson, Einaudi, Torino, 2008, pp. 10 e 51.
4- Gilead, p. 18.
5- 2014: Il cardellino (The Goldfinch) di Donna Tartt, Rizzoli, Milano, 2014, edizione 2017, p. 538.
6- Il declino dell’impero Whiting, p. 40.
7- 2003: Middlesex di Jeffrey Eugenides, Mondadori, Milano, 2003, edizione 2017, p. 342.
8- Il declino dell’impero Whiting, p. 36.
9- 2003: Il mondo conosciuto (The Known World) di Edward P. Jones, Bompiani, Milano 2003, edizione 2007, p. 302.
10- Olive Kitteridge , pp. 239 e 320.
11- Middlesex, p. 535.
12- 2011: Il tempo è un bastardo (A Visit From the Goon Squad) di Jennifer Egan, MinimumFax, Roma, 2011. p. 56.
13- Il tempo è un bastardo, p. 73.
14- Il tempo è un bastardo, p. 140.
15- Il Simpatizzante, p. 165.
16- Il Simpatizzante, p. 349.
17- Il mondo conosciuto, p. 343.
18- Gilead, p. 129.
19- Middlesex, p. 25.
20- Middlesex, p. 345.
21- Il Simpatizzante, , p. 370.
22- Middlesex, p. 198.
23- Il declino dell’impero Whiting, p. 344.
24- Il Simpatizzante, p. 430.
25- 2013: Il signore degli orfani (The Orphan Master’s Son) di Adam Johnson, Marsilio, Venezia, 2013, edizione 2014, p. 159.
26- Il signore degli orfani, p. 159.
27- Il Simpatizzante, p. 388.
28- Il signore degli orfani, p. 407.
29- l Cardellino, p. 294.
30- Il Simpatizzante, , p. 175.
31- Olive Kitteridge, p. 204.
32- Gilead, p. 33.
33- Il Cardellino, pp. 154-155.
34- Oscar Wao, p. 30.
35- Il mondo conosciuto, p. 51.
36- I am not Your Negro, scritto da James Baldwin, diretto da Raoul Peck, 2017, 55’30’’ e minuti seguenti.
37- Il Simpatizzante, p. 163.
38- Il Simpatizzante, p. 107.
39- Il mondo conosciuto, p. 131.