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Senza titolo, Pino Bertelli

Lo si sentiva a volte ripeterla fra sé in una sequela monotona: “pecché? Pecché pecché pecché pecché??” Ma per quanto sapesse d’automatismo, questa piccola domanda aveva un suono testardo e lacerante, piuttosto animalesco che umano. Ricordava difatti le voci dei gattini buttati via, degli asini bendati alla macina, dei caprettini caricati sul carro per la festa di Pasqua. (1)
Nessuno sfugge alla storia, non al suo destino, ma alla storia del tempo in cui è capitato. Sono nata il 16 marzo del 1978, mentre venivo al mondo un commando delle brigate rosse assaltava in via Fani l’onorevole Aldo Moro e la sua scorta. Questa pagina scura della Repubblica ha accompagnato ogni mio compleanno e sono certa abbia influito non poco sulla mia curiosità, a tratti morbosa, verso quel periodo definito anni di piombo, combinazione di parole che lascia ben poco spazio all’immaginazione. È il gioco crudele della Storia, nel quale, ci piaccia o meno, siamo tutti chiamati a scegliere, ad agire oppure a guardare mentre altri lo fanno. Questa disciplina è lo studio, la conoscenza dell’essere umano nel tempo, è il racconto della vicenda individuale e collettiva di ognuno e ognuna di noi. E allora perché è così crudele? Perché nelle pagine del nostro passato come in quelle di questo triste presente non trova spazio la civiltà? Perché la storia continua ad essere la narrazione a tratti abominevole di un’umanità che rinuncia a sé stessa? Ho riletto nell’ultimo mese il capolavoro di Elsa Morante, La Storia, e come spesso accade con la buona letteratura, tra le pagine di un libro pubblicato nel 1974 ho trovato le parole per capire e forse raccontare. Le vicende di Ida, Useppe e Ninnuzzu si svolgono nell’arco della seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra, ma i grandi fatti della Storia così come i grandi nomi rimangono a fare da sfondo alle vicende drammatiche tutte, e tutte ugualmente miserabili dei protagonisti. La Morante ci presenta un suo personale ciclo dei vinti, perché l’unica verità alla fine delle 657 pagine del libro, è che nessuno può sentirsi vincente e soprattutto nessuno è innocente. Né allora, né oggi. Forse soltanto il piccolo Useppe può dirsi tale, unica voce spirituale in un racconto drammaticamente dominato dagli aspetti più carnali della vita, (e come potrebbe essere diversamente sotto le bombe e senza cibo o una casa) egli è solo, rifiutato dalla società, dalle istituzioni, amato in modo primordiale da una madre che vive spesso senza comprendere il perché delle sue azioni, sempre guidata esclusivamente da una necessità di protezione verso quest’anima pura, sebbene nata dalla violenza. Ogni ambiente è dominato da forze brute, che sembrano rinnegare la stessa umanità che li ha prodotti, così è la fabbrica, così è il rifugio, così è la montagna dove si nascondono i partigiani, che pure sono dalla parte giusta della storia. Non c’è luogo, tempo o personaggio che possa essere assolto, tutti sono colpevoli, loro malgrado a volte. Tutti tranne Useppe, che ama senza chiedere nulla in cambio, che sente dentro di sé la poesia, anche se non la sa scrivere, che accarezza ogni essere vivente riconoscendo al più piccolo insetto quella dignità che gli uomini negano agli altri uomini. Useppe attraversa gli anni della guerra e della fame e della violenza non lasciandosi mutare, il suo sorriso bambino, che agli occhi degli adulti appare talvolta stupido, è il sorriso innocente di chi prova coi suoi pochi mezzi a resistere alla Storia. Ma nessuno può sfuggire alla tirannia del tempo e della vita, così anche Useppe, come gli altri, soccombe. Non c’è scampo e non c’è possibilità perché finché degli uomini o anche solo un uomo sulla terra, sia forzato a una simile esistenza, discorrere di libertà, di bellezza e di rivoluzione, è un’impostura! (2)
E allora oggi, in un aprile che continua ad essere il più crudele dei mesi, è tempo di capire quale vogliamo che sia la nostra storia, in che modo vogliamo lasciare traccia di un passaggio individuale e comunitario, da quale parte vogliamo essere. Se nel 1943 appariva chiaro quale fosse quella giusta, sebbene la scelta fosse tutt’altro che semplice, oggi regna un’ambiguità pericolosa e un revisionismo rozzo e dozzinale che riduce fatti e persone a strumenti di potere. È forse proprio il potere il nemico più subdolo dell’umanità, nemico che infetta la Storia. E così per la felicità non c’è più speransa. Ogni rivoluzione è già persa! (3)
Ma resistere è un imperativo a cui non posso sottrarmi e neppure voglio. Forse ho fatto la mia scelta proprio venendo al mondo quel 16 marzo di 46 anni fa, quando qualcuno con la violenza rivendicava il proprio potere, e io, come Useppe, nella totale incoscienza di una bambina appena nata, urlavo la vita.

 

1 La Storia, E.Morante, ed Einaudi, Torino 2014, pag.500.

2 La Storia, E.Morante, ed Einaudi, Torino 2014, pag.420

3  La Storia, E.Morante, ed Einaudi, Torino 2014, pag. 576